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Terza e ultima parte della storia vera di Camillo nella Torino bene che si fa di coca e pasticche.

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2016 10 31 Radio Bullets

Quel Vestito Bianco – terza parte

Riassunto della prima e seconda parte

Camillo è un giovane torinese che non si aspettava una serata simile. Tornato da Milano in treno dopo una settimana di lavoro, incontra come ogni venerdì sera il suo amico Jonatan. Mangiano una pizza, vanno al bar e poi si salutano. Ma Jonatan propone di brindare alla nuova moto che si è regalato. Verso la mezzanotte, bevendo l’ultimo goccio, si accorgono che Riccardo, un amico in comune, sta seduto nel fondo del locale leggendo un libro alla figlia Ophelia di tre anni e sempre vestita di bianco. Riccardo dice che sta aspettando Patti, e quando questa arriva, pure un altro ragazzo si unisce al tavolo. Camillo e Jonatan non sono invitati e si accorgono che quel tipo è il cuoco del ristorante dove hanno mangiato poco prima. Il ragazzo arrivato per ultimo e con una frangetta a dir poco asimmetrica, si avvicina a Camillo e lo invita al tavolo. Jonatan saluta il suo amico e se ne va. Al tavolo, Riccardo passa a Camillo una busta e lo esorta a trascorrere con loro la serata. Camillo guarda il contenuto della busta e accetta.
La serata la passano in una villa sulle colline subito fuori Torino. Ci arrivano con la Panda di Davide, il cuoco. Mentre Camillo, Davide, Patti e Riccardo vanno alla festa, Ophelia, la bimba di Riccardo, resta nella Panda a dormire. All’interno della villa, quello che sembra l’organizzatore della festa porta Camillo in una stanza piena di persone in attesa. Camillo estrae la busta e l’organizzatore della festa si congratula per la qualità del contenuto: coca di prima scelta.
Camillo fa qualche tiro. In molti si mettono in fila, anche Riccardo. Tornato nel salone d’entrata della villa, Camillo vede Davide che saluta tutti e a tutti stringe la mano. Anche a Camillo, passandogli una pasticca che ingoia senza nemmeno guardare di che cosa si tratta. Camillo continua a bere finché sente avvicinarsi le sirene della polizia. La gente scappa e lui cerca di chiamare Jonatan e chiedere aiuto ma si sente male. Comincia a muoversi ciondolando tra le stanze della villa fino ad uscire da una finestra e ritrovarsi nel parco. Accasciato ai piedi di un albero cerca nuovamente di chiamare Jonatan. Appoggiato all’albero Camillo sviene.

Quel Vestito Bianco – terza parte

Riccardo l’aveva visto. Era un tipo che non sorrideva mai. Teneva la testa bassa, un bicchiere di vino in mano e guardava ansiosamente l’orologio. Riccardo se n’era accorto perché quel tizio indossava le stesse improbabili scarpe che si era comperato pure lui quella mattina, e trovava questo un fatto insolito perché erano scarpe con un guizzo dorato che mai si sarebbe sognato di avere prima di allora ma Ophelia insisteva che erano belle papà perché non le compri? e forse pure quel tizio se l’era comprate solo perché la figlia insisteva e la cosa gli strappò pure una piccola risata. Ma poi iniziò a osservarlo. Partendo dai piedi. Tra tutti gli avventori della festa, era quello che c’entrava meno. Strani jeans larghi, una felpa nera, capelli rasati, non parlava mai. E se rispondeva, lo faceva con parole di circostanza. Riccardo cominciò a seguirlo per le stanze come un’ombra lontana.
Di fronte alla porta del bagno c’erano due che aspettavano. Quel tizio aveva tirato fuori il cellulare e cominciato a scrivere. Ricky era sicuro, era sicurissimo che stesse scrivendo alla polizia. Era un infiltrato, un poliziotto in borghese venuto a documentare il giro di coca e pasticche della Torino bene. Tornò al salone d’entrata della villa. Davide stava salutando un signore in frac con dei baffi risorgimentali. Gli si avvicinò all’orecchio
«Per me è ora di andare. Ophelia mi aspetta. Ti riporto subito le chiavi».
Corse nel buio di quel venerdì notte senza schivare le pozzanghere sull’asfalto. Salì in auto.
«Adesso andiamo a casa, Ophelia, tu continua a dormire».
Mise in moto e fece schizzare il fango che si era incastrato sotto le ruote. Scendendo dal colle verso la città, alla seconda curva, quella dove d’estate si piazza il baracchino notturno dei panini, incrociò tre volanti della polizia a sirene spiegate. Incassò di scatto la testa dentro al collo come una tartaruga impaurita e guardò fisso avanti. Arrivato in piazza Vittorio Veneto si fermò in mezzo alla strada. Fissò un lampione. Il respiro ansimava e pensò subito a Davide, al suo interrogatorio, alle foto sul sito de La Stampa il giorno dopo, al suo nome, al dacci il nome di altri che è meglio per te.
Poi il cuore cominciò a rallentare. Tastò la coperta su cui dormiva Ophelia.
«Andiamo a casa», disse piano.
Poi tastò ancora per accarezzarla ma la coperta era vuota. Si girò. Ophelia non c’era.

Una mano gli toccava la faccia. Camillo si svegliò. Non ci vedeva, era buio e la testa girava. Le orecchie fischiavano come dopo un incidente e le braccia non hanno mai pesato tanto. Una mano continuava a premergli la faccia, tirargli il naso, i capelli. Vide una figura bianca. Strinse gli occhi e si tirò su. Di fronte a lui stava Ophelia, con la faccia bagnata dalla pioggia e quel vestito bianco inzuppato.
«Cosa fai?», riuscì a dire.
«Andiamo a casa?», chiese Ophelia.
«Si», rispose.
Estrasse il cellulare dalla tasca e lasciò un messaggio vocale a Jonatan. Gli disse dov’era e di andarlo a prendere che stava male e con lui c’era pure la piccola di Riccardo. L’alba sembrava ancora lontana e si alzò a fatica. Si appoggiò all’albero e prese per mano Ophelia. Le sirene della polizia continuavano a suonare in cerchio e zoppicando si avvicinò alla villa. Si sentivano grida. Camillo dovette fermarsi e sedersi ancora sull’erba arrancando sotto un cespuglio. Sentiva le poche forze rimaste svanire rapidamente.
«Sediamoci qui un attimo», disse quasi sussurrando a Ophelia.
Stettero nascosti sotto a quel cespuglio fino a che l’alba cominciò a schiudersi. La pioggia aveva smesso di scendere e Ophelia gli dormiva in braccio. Camillo seguiva i battiti del tutto aritmici del suo cuore. Prima rapidi, sempre più veloci, e poi lenti, lentissimi. La vista spariva d’un tratto, come si stesse addormentando, e poi ricompariva con lampi bianchi e intermittenti, e non sentiva quasi nulla, come si trovasse sott’acqua.
Era mattina, le sei e quarantacinque quando la polizia lo trovò morto sotto a quel cespuglio. La bambina dormiva ancora ma tremava. La portarono con l’ambulanza in ospedale. Riccardo era stato avvisato solo verso l’ora di pranzo del sabato.
Circa sei mesi dopo, Jonatan, sceso dalla sua moto e fermandosi in edicola, rivide sul giornale la foto di Davide vincitore di un premio come migliore giovane cuoco di Torino. Non sorrideva, Davide. Come quel venerdì sera al bar. Jonatan era stato ascoltato dalla polizia, aveva riferito tutti gli eventi di quel tragico venerdì, ma niente riguardo a Davide. Jonatan lo vide soltanto entrare e scambiare qualche battuta. La polizia invece pensava fosse lui la chiave di quel traffico di stupefacenti. Sua era l’auto guidata dal padre della bambina che dormiva in braccio al ragazzo deceduto sotto un cespuglio del parco della villa. Eppure non riuscirono a dimostrare niente e adesso Davide stava con quella sua faccia stampata sul giornale a ritirare un premio.
Mise in moto e accelerò lungo il Regio Corso. Era domenica mattina, non c’era quasi nessuno. Jonatan non si accorse nemmeno che all’incrocio con via Verona, Riccardo stava comprando coca. Ophelia al suo fianco con quel vestito bianco a giocare a campana. Tiri un sassolino sulla casella numerata e disegnata per terra con il gesso, e poi salti. Tutte le volte che la sorte ti ha assegnato.

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