Capitolo 2: Raccontare è un istinto

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Raccontare è un istinto

Se l’uomo ha imparato a comunicare dalle grandi scimmie partendo con l’imitazione dei gesti e calibrando in modo sempre più pubblico un discorso vocale, rimane un dubbio di complessa risoluzione: perché gli uomini hanno cominciato a raccontare storie?

Se lo chiedono soprattutto i biologi, visto che a prima vista una storia non ha niente a che vedere con la sopravvivenza della specie. Ma è davvero così? Perché noi umani continuiamo a raccontare? O come dice Jonathan Gottschall, abbiamo bisogno di raccontare. Tanto che per noi umani le storie sono come l’acqua per i pesci, ne siamo immersi in modo impalpabile? Quello che lui chiama “istinto di narrare” è una vera e propria dipendenza. Di fatto noi non sappiamo perché desideriamo così ardentemente le storie. La mente umana, scrive, “cede impotente al risucchio di una storia” (p.21 ib.). Parte dai bambini: per loro le storie sono qualcosa di compulsivo a livello psicologico. Qualcosa di cui sembrano aver bisogno allo stesso modo del cibo e dell’amore.

Indagare le storie è già di per sé un fatto strano, ma ancora più strano è la loro centralità nell’esistenza umana. L’uomo è chiamato storytelling animal perché l’approccio di Gottschall ha un’eco biologica. L’uomo è il primo e unico animale che narra, ed è per questo che si differenzia dagli altri animali. Come abbiamo visto nel capitolo precedente (Dai gesti alle parole. La filogenesi della comunicazione umana), le scimmie sono capaci di una comunicazione più evoluta degli altri animali e adoperano un vocabolario gestuale ben più complesso. Addirittura sanno legare gesti in modo coerente creando una specie di racconto fatto di più segni messi insieme (abbiamo visto il video del racconto del gorilla Michael sulla morte della madre). Questa è una vera e propria grammatica, quella che viene definita “sintassi semplice”. L’uomo ha fatto un balzo in avanti con l’uso modulato della voce. La voce funziona di più in pubblico, questo è il motivo dell’uso dei suoni vocali o vocalizzazioni. Le grammatiche complesse che hanno portato oggi a seimila lingue diverse partono per una necessità: il racconto. Raccontare una storia è una attività estremamente complessa. Occorre legare elementi diversi in un unico spazio e in un unico tempo. L’intenzionalità è alla base della capacità di comunicare evoluta dell’uomo. Le narrazioni sono il modo in cui i sapiens hanno invaso il mondo colonizzandolo. Partendo da meno di centomila anni fa.

Da dove nascono le storie? Come per gli animali, anche per gli uomini le storie nascono dai sogni. I sogni sono storie e le storie hanno la stessa struttura dei sogni. Si tende a pensare che i sogni siano solo un affare notturno. Tutt’altro: un sogno diurno (p.29, ib.) dura in media quattordici secondi, ne produciamo circa 2.000 al giorno. Trascorriamo la metà delle nostre ore di veglia, cioè un terzo della nostra esistenza, elaborando fantasie. (Klinger 2009; Killingsworth e Gilbert, 2010). Secondo Freud e i freudiani i sogni sono messaggi criptati dell’Es: codificarli significa decifrare gli indecifrabili messaggi dell’inconscio. Eppure i sogni che ricordiamo sono proprio come le storie: perlopiù minacciose. Da uno studio di Valli e Revonsuo (2009), una persona ha in media tre sogni REM per notte e circa 1.200 all’anno (come dire sei anni di sogno narrativo ininterrotto nell’arco di una vita). Di questi, 860 (71%) contengono almeno un evento minaccioso. I temi universali sono proprio quelli presenti nelle storie:

essere cacciati o attaccati
cadere da grande altezza
annegare
perdersi
venire intrappolati
ritrovarsi nudi in pubblico
subire ferite
ammalarsi
morire
essere coinvolti in un disastro di origini naturali o antropiche.

Notiamo che esiste una forte correlazione tra le fantasie del gioco di immedesimazione dei bambini, la finzione narrativa, i sogni. Tutti e tre consentono di fare pratica nell’affrontare i problemi, fare esperienza prima di fare effettivamente esperienza. Per il cervello, un sogno o una finzione narrativa o un gioco di immedesimazione sono la stessa cosa. Come scrive William Dement: la nostra esperienza onirica ci sembra reale perché dal punto di vista del cervello è reale (aggiungere fonte).

In definitiva, anche i sogni sono storie con la stessa funzione dei racconti di cui fruiamo: servono a farci fare allenamento nella risoluzione dei problemi. Fruire di una storia è quindi un atto innato negli animali. Un proverbio ungherese (citato nell’Interpretazione dei Sogni di Sigmind Frued) dice: il maiale sogna le ghiande, l’oca il granturco.

Ma allora chi racconta storie? Tutti! E costantemente. Vai al bar e racconti una storia ad un tuo amico; vai su youtube e trovi miliardi di storie; qualsiasi pubblicità non è altro che una storia; lo sport è confezionato come una storia; un paper accademico, con la sua griglia prestabilita e ultra-confinata, racconta una storia; ci si innamora con una storia; si cambia la propria vita grazie ad una storia; si sceglie il proprio medico con le storie che si raccontano su uno o sull’altro; si va a vivere in una certa città perché si crede in quella storia; gli imprenditori raccontano una marea di storie; la religione è una grande narrazione, forse la più grande; la Storia con la esse maiuscola è un lungo aneddoto. Infatti proprio la Storia è talmente ricca di elementi inventati e omissioni che spesso si può tranquillamente inscrivere nella categoria del mito più che della Storia propriamente intesa.

Qual è quindi l’enigma dell’attitudine a narrare (p.41 ib.). Secondo Gottschall si riduce a questo: se l’evoluzione è implacabilmente utilitaristica, perché l’apparente lusso rappresentato dalla finzione narrativa non è stato eliminato dalla vita umana?

Ecco un riassunto delle varie risposte che si trovano in letteratura:

a) sotto l’aspetto dell’evoluzione, la fonte del narrare storie è la selezione sessuale, non la selezione naturale. Le storie rappresentano un modo per fare sesso attraverso un’esibizione delle proprie capacità, dell’intelligenza e creatività: le qualità della propria mente.

b) le storie sono una forma di gioco cognitivo. Brian Boyd (evoluzionista) scrive: “un lavoro artistico funge da parco giochi per la mente” (2009, p.15). La libera espressione dell’arte, in tutte le sue forme, agisce sui nostri muscoli mentali come giocare alla lotta agisce sui muscoli fisici.

c) le storie sono fonti poco costose di informazioni e di apprendimento tramite l’esperienza altrui (Scalise Sugiyama, 2005). Orazio: “dilettare allo scopo di istruire”.

d) le storie sono una sorta di collante sociale (Dissanayake 1995, 2000) che unisce le persone attorno a valori comuni.


e) le storie non servono a niente. Perlomeno in termini biologici. Sono un refuso della nostra evoluzione, un po’ come il coccige o le tonsille.

Le storie non servono a niente
Partiamo dall’ultima delle ipotesi: le storie non servono a niente. Sono un refuso, un bug del cervello, rimasto lì per millenni e che probabilmente in futuro sparirà. Le storie non sono come l’indice opponibile, o come gli organi di riproduzione, o come la bocca che ci permette di mangiare. Le storie biologicamente sono inutili. Questo non è vero. e’ dimostrato che le storie producono effetti collaterali biologici rilevanti. L’arte del narrare ha molto più a che fare con la biologia che con qualsiasi altra scienza. Ascoltare una storia equivale a far lavorare ormoni e neurotrasmettitori. Come la vasopressina, l’ossitocina, la serotonina, la dopamina, le endorfine. Raccontare una storia e fruire di un racconto significa attivare sostanze nel cervello e nel sangue che hanno come effetto l’azione. Una storia ci smuove, ci fa prendere decisioni, incide così tanto nella nostra vita che non si tratta soltanto di una manifestazione della coscienza, ma di sostanze prodotte nell’organismo che ci fanno effettivamente agire. Facciamo un esempio. Una tribù di sapiens deve affrontare una tribù di neanderthal. Convincere i membri della vostra tribù ad affrontare ominidi del tutto simili a voi ma che pesano mediamente il doppio non è semplice. Oppure siete in ufficio e dovete convincere i membri del vostro team. O all’università e fare un lavoro di gruppo. Occorre convincere una persona o un gruppo di persone circa la vostra visione o una vostra idea e quindi agire sulla loro volontà. Per farlo si possono raccontare delle storie. Per aumentare la motivazione di una persona che ascolta il nostro discorso ad esempio, ricorreremo all’attivazione della dopamina. Per creare un legame con il pubblico attiviamo l’ossitocina. Per coinvolgere l’interlocutore si attivano dei neurotrasmettitori chiamati endorfine. Tutto grazie alle storie. 

Vediamoli in dettaglio.

Dopamina: C8 H11 NO2

Gli effetti del lavoro dell’ormone della dopamina sono i seguenti: più concentrazione, più motivazione, più memoria. Per arrivare a questi effetti ecco alcuni suggerimenti: create suspence. Per farlo usate un espediente narrativo: il cosiddetto cliff-hanger. Il cliff-hanger è la scelta del narratore di interrompere bruscamente la narrazione in un momento di suspence. Questa interruzione porta al rilascio da parte del cervello di dopamina.

Ossitocina: C43 H66 N12 O12 S2

Gli effetti delll’ormone dell’ossitocina sono i seguenti: più generosità, più fiducia, più legame. L’ossitocina ti fa sentire più umano. Si crea un legame con il narratore. Ci si sente anche più rilassati. Per indurre livelli di ossitocina nel sangue ecco alcuni suggerimenti: empatia con il pubblico: fare domande, fare interagire il pubblico.

Endorfine:

L’ipofisi è una piccola ghiandola dal peso di circa un grammo che ha una funzione importante: gestire il grande traffico di ormoni nell’organismo. L’ipofisi si chiama anche ghiandola endocrina perché secerne ormoni. Si trova alla base del cranio. Nel lobo anteriore dell’ipofisi si producono un certo tipo di sostanze chiamate endorfine. Le endorfine sono classificabili come dei neurotrasmettitori. Una forte emozione, oppure l’allenamento duro producono endorfine. Per indurre endorfina nel sangue fate ridere l’audience. Il pubblico diventa più creativo, rilassato e coinvolto. Tenete di scorta sempre una storia divertente da usare per fare rilassare il pubblico.

Sembra quindi inverosimile che le storie siano biologicamente inutili, non fosse altro per la facilità che riescono a rilasciare emozioni intense in un modo così semplice ed economico. Le storie sono quindi sopravvissute a decine di millenni di evoluzione per la loro grande capacità di far vivere emozioni. Questa è una delle ipotesi ma difficilmente sarà l’unica.

Simulatore di volo
Un altro motivo per l’esistenza delle storie infatti è il fatto di far fare esperienza prima di doverla effettivamente fare. Questo è evidente nelle storie dei bambini. Tutte le storie che i bambini inventano sono incentrate su una sola cosa: i problemi, le situazioni che generano ansia e preoccupazioni (p.51 ib.), ancora una volta come i sogni: si ricordano prevalentemente quelli minacciosi. Come ricorda il teorico del gioco Brian Sutton Smith “Nelle storie narrate oralmente dai bimbi piccoli le azioni più tipiche comprendono l’essersi persi, essere portati via, essere morsicati, morire, essere calpestati, essere arrabbiati, scappare o cadere. Nelle loro storie i bambini ritraggono un mondo in continuo mutamento, un mondo di anarchia, di disastri” (Sutton-Smith 1997, pp.160-161). Esperti di psicologia infantile (p.58 Gottschall) concordano nel sostenere che il gioco di finzione serve a qualcosa, ha delle funzioni biologiche (…) esso aiuta i giovani a simulare azioni per prepararsi alla vita adulta. Da questa prospettiva, i bambini che giocano stanno allenando il loro corpo e il loro cervello per le sfide che affronteranno da grandi: stanno costruendo intelligenza sociale ed emozionale. Il gioco è perciò molto importante: è il lavoro dei bambini”.

Nella cultura occidentale, e soprattutto a partire dai film di animazione di Walt Disney, le storie per bambini hanno subito nel giro di poche decine di anni una inversione della paura verso un buonismo e un romanticismo non presente nelle versioni originali.

Nelle fiabe originali dei fratelli Grimm oppure quelle di Hans Christian Andersen, o ancora nei racconti di Giambattista Basile o di Charles Perrault, succede di tutto: bimbi a cui vengono tagliate le dita, che cadono dentro a burroni rompendosi la testa, che giocano con un fiammifero e muoiono incendiati.

Cenerentola la ricordiamo come la storia della bella e povera principessa costretta a spazzare il pavimento e non poter andare al ballo, e della sua rivincita contro le sorellastre. La versione originale si perde nei meandri della Storia. Sembra sia apparsa in Cina nel IX secolo. Soltanto nel 1634 Giambattista Basile la inserisce nel suo Pentamerone. Si chiamava La Gatta Cenerentola e la dolce principessa, d’accordo con la governante, fa spezzare a sangue freddo il collo alla matrigna. Il padre sposa la governante e ripudia la figlia. Ma anche se ripudiata Cenerentola partecipa al ballo e perde la scarpetta, che poi le calza a pennello e la storia si chiude con il lieto fine. Nella versione dei fratelli Grimm, alle sorellastre tocca una sorte a dir poco raccapricciante: prima si tagliano i talloni e le dita dei piedi pur di farceli stare dentro alla scarpetta, poi – al matrimonio di Cenerentola con il principe – le colombe che avevano aiutato Cenerentola volano su di loro e cavano gli occhi a tutte e due. Fine della storia.

Seguendo questo link si può leggere la storia di Cenerentola nella versione dei Fratelli Grimm (1822) > http://www.ic16verona.gov.it/libri_digitali/antologia_1/LinkedDocuments/Grimm%20-%20Cenerentola.pdf 

 

Fine e sogni d’oro. O quasi! Ma perché le storie erano e sono intrise di minacce, malvagità, elementi terribili come la fiaba di Cenerentola dei fratelli Grimm? “C’è un abisso (ib. p. 65) fra ciò che è desiderabile nella vita e ciò che è desiderabile nella finzione narrativa. Questo perché se non ci fossero problemi intricati, non ci sarebbe storia”. E qui tocchiamo uno dei punti cardine delle storie: non esiste storia se non esiste un problema, o meglio, un conflitto da superare.

Janet Burroway su Writing Fiction (2003, .82) scrive: “il conflitto è l’elemento fondamentale della finzione narrativa. (…) Nella vita spesso il conflitto ha una connotazione negativa, invece nella finzione, che sia comica o tragica, il conflitto drammatico è essenziale perché in letteratura solo i problemi sono interessanti. Non è così nella vita”.

Le storie secondo Gotschall hanno tutte in comune una grammatica universale, come per tutte le lingue umane, come ha dimostrato il linguista Noam Chomsky. Tutte le storie sono la stessa storia (vedremo più avanti The hero with a thousand faces di Joseph Campbell, 1949, poi semplificato da C. Vogel, 1992, con Il viaggio dell’eroe) e tutte si dipanano attorno ad un numero limitato di tematiche principali: sette (anche queste le vedremo più avanti il lavoro di Booker, 2004, The 7 basic plots). La funzione delle storie è quindi anche quella di fungere da “simulatori di volo” (Keith Oatley, 2008) per la vita sociale umana. Fruendo di un racconto si rivivono le stesse emozioni della persona che ha effettivamente vissuto l’esperienza. Le storie quindi (Gotschall, p. 74 ib.) “costituiscono lo spazio nel quale gli individui si esercitano ad utilizzare le competenze più importanti della vita sociale umana.(…) La finzione narrativa è un’arcaica tecnologia di realtà virtuale specializzata nella simulazione di problemi umani”. La teoria dei neuroni specchio ci viene in soccorso: “noi possediamo delle reti neuronali che si attivano quando eseguiamo una certa azione o sperimentiamo un’emozione, e anche quando osserviamo qualcun altro eseguire quell’azione o provare quell’emozione” (ib. p.76).

Nel 2003 Reeves e Naas (The Media Equation) dimostrano come nel cervello non esista differenza tra una storia vissuta e una storia raccontata: “i media eguagliano la vita reale”. Anche se un individuo sa che la finzione è in effetti finzione, questo non cambia l’aspetto biologico di elaborazione dell’emozione. Le storie vengono immagazzinate nel cervello per fungere da archivio di esperienze (di altri) utile nel momento in cui dobbiamo risolvere un problema. Fare pratica di una determinata competenza significa scavare solchi nel cervello per poterla ripetere in modo sempre più veloce, incisiva, sicura. Pensiamo allo studio di uno strumento musicale. Ci si continua ad esercitare per rendere l’atto del suonare qualcosa di sempre più naturale. Gotschall descrive questo modello di simulazione integrando la nozione di memoria implicita, quelle informazioni che il cervello sa di noi ma noi no. è incoscia. Funziona anche se non ci pensiamo, se non ci prestiamo attenzione. “La ripetizione realistica di qualunque abilità (…) porta a prestazioni migliorate a prescindere dal fatto che gli episodi di allenamento siano esplicitamente ricordati” (Valli e Revonsuo, 2009, p.11). I solchi sono creati dalle esperienze delle storie di cui fruiamo. Da qui la conclusione: la finzione, le storie, non sono biologicamente inutili, al contrario sono vantaggiose per noi. “Questo perché la vita umana, specialmente la vita sociale, è profondamente complessa, e le poste in gioco molto alte. La finzione consente al nostro cervello di fare pratica con le reazioni a quei generi di sfide che sono, e sono sempre state, le più cruciali per il nostro successo come specie” (ib. p.85).

Il cervello ha bisogno di dare coerenza e unità ad una marea di informazioni e input che quotidianamente riceve. E lo fa anche se deve sacrificare la verità. I ricordi ne sono un buon esempio. Spesso noi ricordiamo solo frammenti di un certo episodio, ma per dare un senso al tutto ne inventiamo altri di sana pianta. Così che se avete un fratello o una sorella ed entrambi avete vissuto da piccoli una data esperienza, quasi certamente voi aggiungerete dei dettagli completamente inventati e vostro fratello o vostra sorella pure.

Gottschall fa un esempio. Uno Studio in Rosso di Conan Doyle è il primo romanzo su Sherlock Holmes (1887). Dopo una breve introduzione, Watson incontra Holmes. Lo scrittore descrive ciò che ritroveremo in tanti altri romanzi sul detective: Sherlock Holmes che profila da piccolissimi dettagli un intero castello di interpretazioni. Noi siamo rapiti dalla brillantezza del detective, ma a ben guardare si tratta di dettagli completamente illogici. Il cervello però ci crede perché ha bisogno di forma, di unità e coerenza. Holmes in un istante profila il compagno di future avventure da piccoli dettagli e poi analizza il percorso della sua deduzione. Dice Holmes:

In me, lo spirito d’osservazione è una seconda natura. Lei è rimasto stupito quando le ho detto, al nostro primo incontro, che veniva dall’Afghanistan.

Senza dubbio, qualcuno gliel’aveva detto.

Niente di tutto ciò. Io ho capito che lei veniva dall’Afghanistan. Per lunga abitudine, il lavorio della mia mente è così rapido, che sono arrivato a quella conclusione senza esser conscio dei passaggi intermedi. Però, ci sono stati dei passaggi intermedi. Ecco il filo del mio ragionamento: quest’uomo ha qualcosa del medico, ma anche qualcosa del militare. È reduce dai Tropici, poiché ha il viso molto scuro, ma quello non è il suo colorito naturale, dato che ha i polsi chiari. Ha subìto privazioni e malattie, lo dimostra il suo viso emaciato. Inoltre, è stato ferito al braccio sinistro. Lo tiene in una posizione rigida e poco naturale. In quale paese dei Tropici un medico dell’esercito britannico può essere stato costretto a sopportare dure fatiche e privazioni, e aver riportato una ferita a un braccio? Nell’Afghanistan, naturalmente. S’intende che il mio cervello ha impiegato meno di un secondo a formulare questo sequenza di pensieri. Allora, le ho detto che veniva dall’Afghanistan, e lei è rimasto sbalordito.

Sono molte le incoerenze logiche: ma è finzione! Quindi il cervello le accetta, anzi, ne ha bisogno. Scrive Gottschall: “L’attitudine narrativa della mente è un essenziale adattamento evoluzionistico, che consente di esperire la nostra vita come qualcosa di coerente, ordinato e dotato di senso, e non come un caos travolgente. (…) La mente narratrice è allergica all’incertezza, alla casualità e alle coincidenze. è assuefatta ai significati e, se non riesce a trovare degli schemi significativi nel mondo esterno, cercherà di imporveli. In parole povere, è una fabbrica che, quando può, produce storie vere, ma quando non può sforna menzogne”. (p.119, ib.)

Sono molti gli esperimenti che dimostrano come la mente sia affamata di storie, ovvero di come cerchi di dare significato (un significato narrativo) anche se in assenza di una storia. Nel 1944 Heider e Simmel propongono un breve filmato con un semplice compito: descrivete ciò che vedete.

[filmato > https://www.youtube.com/watch?v=VTNmLt7QX8E]

Raccolti i risultati, soltanto 3 su 144 hanno dato una risposta ragionevole: forme geometriche nere si muovono in uno spazio bianco. Tutti gli altri hanno inventato storie. Quando faccio vedere questo filmato a lezione ricevo le risposte più affascinante. Eccone alcune:

C’è un triangolo grande nella sua casa tranquilla. Dopo qualche minuto arrivano un cerchio e un triangolo piccolo vicino alla casa del triangolo grande. Lui esce furioso dalla casa e comincia ad attaccare il piccolo triangolo.Durante la lotta tra i due triangoli, il cerchio si rifugia nella casa. Il triangolo grande fa scappare quello piccolo e va dentro la casa ad acchiappare il cerchio che però riesce a scappare aiutato dal triangolo piccolo e i due festeggiano fuori dalla casa mentre il triangolo grande rimane chiuso nella casa. Il cerchio e il triangolo scappano via insieme e lasciano il triangolo grande distruggere la sua casa.

Pallino e triangolo sono amici e cercano di scappare dal loro assalitore e padrone triangolone, che alla fine, per la rabbia di averli persi, distrugge il recinto.

Due amanti vogliono assicurasi che il padre di lui tiranno sia rinchiuso nella cella dove merita di stare per aver compiuto crimini efferati. Ma l’ex sovrano, dotato di poteri magici, percepisce la loro presenza e riesce ad aprire la porta della cella. Inizia una lotta tra padre e figlio. Il tiranno, non riuscendo a ferire il sangue del suo sangue, decide di privarlo della persona più importante, ovvero la sua compagna. La attira all’interno della cella, ma viene salvata. I due cominciano a fuggire, vengono inseguiti e riescono a rinchiudere il tiranno nuovamente in cella. Lo seminano. Ma il tiranno utilizza i suoi poteri per evadere, distruggendo le pareti della cella.

Lupo attacca una pecora che viene difesa da un cane pastore. Il lupo riesce ad allontanare il cane pastore e sta per sbranare la pecora, che nel frattempo si era nascosta nel recinto. Sopraggiunge il cane pastore che distrae il lupo e riesce a trarre in salvo la pecora. Il lupo crede che la pecora sia ancora nascosta nel recinto, lo sfonda e si accorge che è vuoto; dunque impazzisce e rompe tutto.

Triangolo grande è il compagno di cerchio. Triangolino è l’amante di cerchio. Cerchio torna a casa con l’amante sperando non ci sia nessuno. Triangolo grande esce dalla sua stanza da letto mentre i due amanti parlano in soggiorno, vede l’amante (di cui sospettava, infatti si infuria subito) e lo rincorre per picchiarlo. La ragazza cerca di intervenire, ma è troppo spaventata per farlo. All’improvviso il fidanzato lascia perdere l’amante e cerca di picchiare la fidanzata, che è chiusa in camera. Lei poi riesce a fuggire chiudendo il compagno in camera e dopo un breve inseguimento i due amanti escono di scena confondendo il fidanzato, che in preda alla collera distrugge la stanza da letto.

Finora soltanto 6 studenti su 97 hanno scritto qualcosa che si avvicina a “oggetti geometrici in relazione” (ad esempio ne riporto uno: 2 triangoli, 1 rettangolo e un pallino” (ma poi ha aggiunto: “oppure: Pac-Man ante litteram”). Ma tutti gli altri studenti (secondo anno laurea magistrale, età compresa tra 23 e 25 anni, 29 femmine e 9 maschi) hanno descritto delle narrazioni. E tutti coloro che hanno scritto racconti li hanno infarciti di minacce: tradimenti, lupi che sbranano pecore, padri tiranni.

Sono molti gli esperimenti che dimostrano la necessità del cervello di creare un significato da elementi diversi, come l’effetto Kuleshov, in cui si mostra per tre volte la stessa immagine (nell’esperimento di Kuleshov un uomo con una espressione facciale neutra) seguita ogni volta da un’altra immagine. La mentre crede di vedere diverse espressioni nella stessa immagine dell’uomo: appetito, tristezza, desiderio.

[Effetto Kuleshov > https://www.youtube.com/watch?v=_gGl3LJ7vHc]

Religione, miti, complotti
Un altro esempio dell’ordine che la mente ha bisogno di operare è visibile nelle teorie dei complotti, dove si collegano elementi molto probabilmente slegati tra loro per dare un significato superiore. La struttura è quella narrativa: l’antagonista sono i pochi uomini che si riuniscono nella stanza dei bottoni per decidere le sorti del pianeta. I buoni e i cattivi sono ben definiti, la trama è avvincente perché ci tocca personalmente. Come scrive Gottschall (p.129, ib.), “ciò che davvero sbalordisce di queste teorie non è il loro essere strane, bensì il loro essere comuni”.
Ma l’espressione più rilevante del dominio della narrazione sulla mente è la religione, o meglio le finzioni sacre. La mente umana ha creato e continua a creare storie per dare un senso all’esistenza. Il Sapiens era già un narratore. Tutte le religioni del mondo si basano su alcune caratteristiche comuni: credere in esseri soprannaturali, credere in un’anima trascendente, credere nel potere della magia (in forma di rituali e preghiere). Le varie religioni poi hanno modificato gli attori in scena e gli eventi, ma tutte trattano di cosmogonia, di cos’è bene e cos’è male, di morale. Prima dell’alfabetismo, le regole di condotta erano veicolate con i racconti sacri e con le immagini. Nel Medioevo, tra il XII e il XIII secolo nascono molti ordini mendicanti: chi ne faceva parte doveva abbandonare qualsiasi proprietà e fare un voto di povertà. L’unica forma di sostentamento era la questua andando di casa in casa a chiedere l’elemosina. Una delle loro attività era quella del raccontare storie, gli exempla. Racconti moralizzanti e con uno specifico obiettivo cristianizzante. Nel terzo capitolo dei Promessi Sposi, Fra Galdino, che va di casa in casa a chiedere noci come elemosina, racconta a Lucia e Agnese l’exemplum di padre Macario sul miracolo delle noci.

“Oh! dovete dunque sapere che, in quel convento, c’era un nostro padre, il quale era un santo, e si chiamava il padre Macario. 

Un giorno d’inverno, passando per una viottola, in un campo d’un nostro benefattore, uomo dabbene anche lui, il padre Macario vide questo benefattore vicino a un suo gran noce; e quattro contadini, con le zappe in aria, che principiavano a scalzar la pianta per metterle le radici al sole.  

Che fate voi a quella povera pianta?  domandò il padre Macario. 

Eh! padre, son anni e anni che la non mi vuoi dar noci; e io ne faccio legna. Lasciatela stare, disse il padre sappiate che, quest’anno, la farà più noci che foglie. 

Il benefattore, che sapeva chi era colui che aveva detta quella parola, ordinò subito ai lavoratori, che gettassero di nuovo la terra sulle radici; e, chiamato il padre, che continuava la sua strada. 

Padre Macario, gli disse – la metà della raccolta sarà per il convento. 

Si sparse la voce della predizione; e tutti correvano a guardare il noce. 

Infatti, a primavera, fiori a bizzeffe, e, a suo tempo, noci a bizzeffe. 

Il buon benefattore non ebbe la consolazione di bacchiarle; perché andò, prima della raccolta, a ricevere il premio della sua carità. 

Ma il miracolo fu tanto più grande, come sentirete.

Quel brav’uomo aveva lasciato un figliuolo di stampa ben diversa.

Or dunque, alla raccolta, il cercatore andò per riscotere la metà ch’era dovuta al convento; ma colui se ne fece nuovo affatto, ed ebbe la temerità di rispondere che non aveva mai sentito dire che i cappuccini sapessero far noci. 

Sapete ora cosa avvenne?

Un giorno (sentite questa), lo scapestrato aveva invitato alcuni suoi amici dello stesso pelo e, gozzovigliando, raccontava la storia del noce, e rideva de’ frati. 

Que’ giovinastri ebber voglia d’andar a vedere quello sterminato mucchio di noci; e lui li mena su in granaio. 

Ma sentite: apre l’uscio, va verso il cantuccio dov’era stato riposto il gran mucchio, e mentre dice: guardate, guarda egli stesso. e vede… che cosa? 

Un bel mucchio di foglie secche di noce. 

Fu un esempio questo? E il convento, invece di scapitare, ci guadagnò; perché, dopo un così gran fatto, la cerca delle noci rendeva tanto, tanto, che un benefattore, mosso a compassione del povero cercatore, fece al convento la carità d’uIl. asino, che aiutasse a portar le noci a casa. 

E si faceva tant’olio, che ogni povero veniva a prenderne, secondo il suo bisogno; perché noi siam come il mare, che riceve acqua da tutte le parti, e la torna a distribuire a tutti i fiumi”.

(Alessandro Manzoni, I Promessi Sposi, capitolo III)

Secondo il biologo David Sloan Wison la religione è emersa come componente stabile di tutte le società umane perché le fa funzionare meglio (Wilson, 2003). La religione definisce un gruppo come tale, “coordina i comportamenti all’interno del gruppo, stabilendo regole e norme, punizioni e ricompense. Infine, fornisce un potente sistema di incentivazione che promuove la collaborazione del gruppo e sopprime gli egoismi”(Gottschall, p. 138, ib.). Secondo Wilson, la funzione della religione “è quella di legare fra loro le persone e far sì che mettano gli interessi del gruppo davanti ai propri” (Wilson, ib.). Proprio come abbiamo visto per il passaggio di intenzionalità comunicativa tra grandi scimmie e homo: il secondo comunica per interessi pro sociali, non egoistici.

Come le religioni, anche i miti nazionali sono una grande narraizone unificatrice. Se prendete la banconota da un dollaro statunitense, noterete che l’aquila regge col becco una striscia di carta. Su quella carta sta una scritta: E pluribus unum, che letteralmente significa “da molti, uno”. Gli Stati Uniti d’America sono un esempio del bisogno di unificare culture, genti e popolazioni diversissime tra loro. Gli europei che hanno colonizzato quelle terre uccidendo i nativi e confinandoli poi nelle riserve avevano bisogno di sentirsi un unico popolo. Un popolo fatto di facce diversissime, lingue tra di loro incomprensibili, culture lontane. La scoperta dell’America ad esempio è un mito che racconta di come nel 1492 Cristoforo Colombo sia approdato nelle Americhe per portare la civiltà. In realtà si era perso ed è capitato lì per caso e per fortuna (e sfortuna dei nativi), ha portato la tecnologia delle spade e delle armi uccidendo le popolazioni locali e saccheggiando i beni degli indios (non si è concordi se il nome deriva dal fatto che Colombo pensava di essere giunto in India oppure se il loro comportamento calmo li fece chiamare così dai primi colonizzatori perché sembrava portassero Dio dentro di loro quindi in-dios: altri miti). Tutte queste storie servono per creare legame e per spronarci a comportarci eticamente. La religione e i miti sono storie in cui i buoni e i cattivi sono molto ben definiti. La moralità della finzione narrativa permette ad un gruppo di funzionare meglio perché spinge a comportarsi eticamente. Jèmelian Hakemulder (2000) passa in rassegna decine di studi scientifici che “indicano come la finzione narrativa abbia effetti positivi sullo sviluppo morale e sul senso di empatia dei lettori (ib, p.152). Chi fruisce di molte storie è come se si immergesse frequentemente nel senso di giustizia: le storie definiscono cosa va bene fare e cosa non va bene fare, il bene e il male.

Come scrive Gottshcall, “le storie, in altre parole, continuano ad adempiere alla loro antica funzione di creare un legame sociale, rafforzando una serie di valori comuni e i fili della cultura comune. Le storie acculturano i giovani, definiscono gli individui, ci dicono cos’è lodevole e cos’è disprezzabile, stimolano costantemente e impercettibilmente l’integrità morale. Le storie sono il lubrificante e il collante delle società: incoraggiandoci a comportarci bene, riducono le frizioni sociali e riuniscono gli individui attorno a valori condivisi. (…) Le storie – sacre e profane – sono forse la principale forza coesiva della vita umana. Una società è composta i individui indisciplinati con diverse personalità, obiettivi e programmi. (…) Come afferma John Gardner, le storie sono “fondamentalmente serie e benefiche, una partita giocata contro il caos e la morte, contro l’entropia” (Gardner, 1978, p.6).

Riassunto del secondo capitolo:

L’uomo ha imparato dalle scimmie a comunicare con i gesti della mano. Poi ha introdotto l’intenzionalità pro sociale e i gesti sono diventati più complessi ed evoluti. I gesti sono stati superati dall’uso della voce, che ha permesso di veicolare messaggi ad un pubblico più ampio. Le narrazioni si sono sviluppate grazie alla creazione di una convenzione, di una grammatica, che ha portato in decine di migliaia di anni all’uso attuale di seimila lingue diverse. Le narrazioni rimangono la forma più evoluta di comunicazione umana per la loro complessità temporale e il fatto di unire insieme elementi apparentemente slegati. La mente umana ha bisogno delle storie. La grande funzione delle storie è quella di dare un ordine al caos dell’esistenza. Quando ricordiamo lo facciamo narrativamente, quando pensiamo lo facciamo narrativamente, e anche quando proiettiamo il futuro, il modo in cui lo facciamo è con una storia. Le storie assolvono a molte funzioni e non sono un refuso biologico. Le storie sono un collante sociale; permettono di costruire una moralità all’interno del gruppo; sono veicoli di informazioni economici e rapidi; permettono di fare esperienza nella mente senza dover fare esperienza nella realtà: il cervello non le distingue; sono un gioco cognitivo che funge da palestra per la mente. L’uomo ha un vero e proprio istinto narrativo che gli permette di tenere ordine nel disordine e nel caos della vita. La mente continua a creare significato, senso, a dare un perché a cose che sembrano senza motivo. L’uomo aborrisce il caos: vuole significato. E il significato è il motore della narrazione. Quindi come fa l’uomo a trovare il significato? Nel prossimo capitolo affronteremo proprio questo argomento: la ricerca del significato.

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