Capitolo 3: Le proprietà della narrazione

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In questo percorso verso la comprensione delle narrazioni, siamo partiti dai gesti che la specie homo ha imparato dalle scimmie. Nel corso della Storia però, l’homo si è accorto che i gesti non bastavano, la voce era uno strumento ben più adatto epr parlare ad un numero maggiore di individui. Nasce l’uso delle proto-parole. Mettere insieme parole significa costruire frasi. Le frasi connesse tra loro danno vita ad una narrazione. Nasce prima la narrazione e poi una grammatica. O meglio, una grammatica nasce proprio per dare un ordine ad un istinto: quello narrativo. I primi homo infatti hanno costruito un terreno concettuale comune dove poterci appoggiare un linguaggio. Secondo Tomasello (ib., p.59), un linguaggio è un “codice simbolico astratto che veicola direttamente il significato”. Il significato “è comprensibile a noi stessi e agli altri solo in virtù di tali sistemi culturali di interpretazione” (J. Bruner, La ricerca del significato, 2000, p.46). Questa è secondo Bruner la “trama grezza e continuamente cangiante della nostra biografia” (ib.). Nel suo testo La ricerca del significato propone un nuovo pensiero psicologico, una psicologia culturale, che parte dal significato e spiega come sia la cultura e non la biologia a plasmare la vita e la mente dell’uomo. Cercare costantemente un significato per dare un senso a ciò che accade nel mondo è quell’act of meaning (titolo originale dell’opera) che profila la nostra esistenza. Noi siamo quel che siamo a causa della cultura che abbiamo creato e continuamente creiamo, e non per una selezione naturale prettamente biologica. Scrive: “è la cultura, e non la biologia, a plasmare la vita e la mente dell’uomo, a dare significato all’azione inserendo gli stati intenzionali profondi in un sistema interpretativo. La cultura può farlo imponendo i modelli che fanno parte dei suoi sistemi simbolici: il linguaggio e le modalità del discorso, la forma della spiegazione logica e di quella narrativa, e i modelli, infine, della vita sociale, con i relativi aspetti di reciproca interdipendenza” (ib, p.48).

A noi interessa questo punto di vista perché la “psicologia popolare” (come base di una “psicologia culturale”) proposta da Bruner è il sistema dentro cui l’uomo organizza la propria esperienza del mondo sociale. Le caratteristiche che la compongono sono narrative e non concettuali: è la narrazione ad organizzare l’esperienza

La psicologia popolare è costituita da credenze: noi crediamo che il mondo sia fatto in un certo modo e che queste credenze siano coerenti. Che le persone scelgano di vivere seguendo queste credenze coerenti: l’amico leale, la moglie fedele. Ma nelle credenze che costituiscono una psicologia popolare, le narrazioni sono superflue. Non c’è conflitto, esiste solo un ordine “come dovrebbe essere”. Ma poi esistono i desideri.

Perché decido di attraversare l’Atlantico da solo con una canoa? In questo preciso punto si installa un’aura di drammaticità. Le cose non sono più ordinate come credevamo prima. Per la psicologia popolare questa è follia: non ha senso. Cosa ne ricava uno ad attraversare un oceano a remi? Perché dovrebbe farlo? La mente non ne vuole sapere. Esiste soltanto un modo per rendere una tale follia qualcosa di ordinato: inserirlo in una struttura narrativa.

 

Alex Bellini è un esploratore. Nel 2003 attraversa da solo l’Alaska, 1.400 chilometri in 27 giorni. Nel 2005, dopo due tentativi falliti, riparte dal molo di Quarto (Genova) alla volta di Fortaleza, in Brasile, da solo con una barca a remi, arrivandoci dopo 226 giorni e undicimila chilometri di mare. Lungo il percorso ha digiunato per cinque giorni perché aveva finito le provviste e non c’erano navi in vista. Raggiunto un arcipelago (di San Pietro e San Paolo), è stato soccorso e sfamato dai ricercatori che ci lavorano. “Mangia poco”, gli dicevano, “potresti morire”. Nel 2008 attraversa l’Oceano Pacifico (18mila chilometri) con una barca a remi. Nel 2011 corre da Los Angeles a New York, 70 giorni e 5.300 chilometri. La psicologia popolare ha bisogno di dare un significato a queste imprese. Soprattutto se si tratta di un padre di famiglia con due figlie piccole. Perché lo fai? si chiede la psicologia popolare. Occorre dare un senso alle avventure di Alex Bellini, inscriverle all’interno di una narrazione, in questo caso epica: Alex è un eroe che ci insegna a non mollare mai, ci dice che l’unico ostacolo alla prossima sfida sei tu: Ulisse che cerca di tornare a Itaca. La psicologia culturale (popolare) potrebbe interpretare i suoi gesti nel seguente modo: “Alex lo fa per mostrare al mondo ma prima di tutto alle figlie che niente è impossibile”. Queste retoriche danno il significato delle sue azioni. Senza, sarebbe considerato soltanto un pazzo. Non è possibile categorizzare le sue scelte se non all’interno di un mondo narrativo. Scrive Bruner (ib., 54) “la psicologia popolare è per sua natura organizzata su base narrativa piuttosto che logica e categoriale. La psicologia popolare si occupa di soggetti umani che compiono azioni basate sulle loro credenze e i loro desideri; soggetti che sono tesi al conseguimento di determinati fini, che incontrano ostacoli sui quali hanno la meglio o dai quali vengono soverchiati, e tutto questo nell’arco di un certo periodo di tempo”. Alex Bellini ha bisogno di continuare a intraprendere nuove avventure perché la psicologia popolare costruisce il significato delle sue azioni soltanto se poste all’interno di una narrazione eroica. Ma ogni narrazione è definita nel tempo, e finita la traversata di un oceano, occorre attraversarne un altro. Finita una corsa di cinquemila chilometri, occorre correrne il doppio da un’altra parte del mondo.

La narrazione ha molte funzioni: collante sociale, simulatore di volo per le esperienze della vita, organizzazione mentale, codici e moralità. L’uomo è uno storytelling animal, un animale narrante. Jerome Bruner si sofferma sulle proprietà della narrazione (p.55).

 

Le dieci proprietà della narrazione secondo J. Bruner

La prima proprietà della narrazione e la più importante “consiste forse nella sua intrinseca sequenzialità: una narrazione è composta da una particolare sequenza di eventi, stati mentali, avvenimenti che coinvolgono gli esseri umani come personaggi o come attori. Queste sono le sue componenti. Ma tali componenti non hanno, beninteso, una vita o un significato propri. Il significato scaturisce dalla loro ubicazione nell’ambito generale dell’intera sequenza, la trama o fabula. L’atto di comprendere una narrazione è quindi duplice: l’interprete deve coglierne la trama portante per poter capire il senso delle sue componenti, per metterlo poi in relazione con la trama. Ma la forma della trama deve, a sua volta, venire estratta dalla successione degli eventi”. Bruner cita Paul Ricoeur (The Narrative Function, 1981, p.277) “Un racconto descrive una sequenza di azioni e di esperienze di un certo numero di personaggi, reali o immaginari. Questi personaggi vengono rappresentati in situazioni che cambiano (…) verso le quali essi reagiscono. Tali cambiamenti, a loro volta, rivelano aspetti nascosti delle situazioni e dei personaggi, dando origine a una nuova situazione che richiede l’intervento del pensiero, dell’azione, o di entrambi. La risposta a questa situazione conduce alla conclusione del racconto”.

La seconda proprietà della narrazione (legata alla prima) è la sua indifferenza ai fatti: il fatto di poter essere reale o immaginaria e la forza del racconto rimane intatta: è la sequenza delle frasi a determinare la configurazione o trama generale, e non la loro verità o falsità. In questo senso, se ci troviamo di fronte ad una cronaca di quotidiano o ad un testo di fantascienza, la forma narrativa non cambia. Bruner si chiede perché si usi la stessa forma per raccontare fatti e per narrare opere di fantasia. La risposta la trova nella tradizione: tutti deriviamo dallo stesso patrimonio di racconti orali (Albert Lord, The singer of tales, 1960). Secondo Ricoeur la narrazione è l’amalgama di un numero infinito di sequenze nella “impossibile logica delle strutture narrative” (ib. p.287). Bruner si allontana da Jung e dalla teoria degli archetipi e dell’inconscio collettivo (1934). Secondo Jung noi nasciamo con un bagaglio di archetipi dati dalle informazioni passate nelle generazioni precedenti alla nostra. Questi archetipi sono universali in tutte le culture e in tutta la Storia. Questo bagaglio si chiama inconscio collettivo e ha il suo magazzino nei sogni. Secondo Bruner invece l’uomo ha una “attitudine o predisposizione a organizzare l’esperienza in forma narrativa, in strutture di intrecci” (ib., p.56). L’attitudine è simile alla nozione aristotelica di mimesis. Nella Poetica, Aristotele introduce il concetto di mimesis come “il cogliere la vita in azione, era un’elaborazione e un miglioramento di ciò che accadeva” (ib. p.57). Secondo Ricoeur, “la mimesis è un tipo di metafora della realtà (…) si riferisce alla realtà non per copiarla, ma per renderne possibile una nuova lettura (op.cit. p.288, 297). La narrazione è quindi arte che copia la vita, che imita la vita.

La terza proprietà è “la sua specifica capacità di stabilire legami tra l’eccezionale e l’ordinario” (ib. p.57). La psicologia popolare si occupa dell’ordinario, la narrazione è in grado di gestire lo straordinario in una continua negoziazione del significato. Infatti secondo gli antropologi sociali, la validità di una cultura è proporzionale alla sua capacità di gestire i conflitti, di negoziare i significati sociali. Alex Bellini che parte per una nuova avventura va inserito in una narrazione che permetta di negoziarne il significato. Deviare dall’usuale significa fare uno sforza di senso in più, un surplus di significato. Agire secondo le abitudini di una società non fa chiedere perché: è semplicemente e coerentemente normale, è “canonico e perciò autoesplicativo” (ib. p.59). Quando ci troviamo di fronte ad uno stato straordinario, occorre crearne una storia. “La funzione del racconto è quella di trovare uno stato intenzionale che mitighi o almeno renda comprensibile una deviazione rispetto a un modello di cultura canonico” (ib. p.59).

La quarta proprietà della narrazione è il suo aspetto teatrale. Kenneth Burke (1945, A Grammar of Motives) esemplifica uno dei più citati modelli per definire i racconti. Ogni racconto è composto da cinque elementi: un attore, un’azione, uno scopo, una scena, uno strumento. Inoltre compare sempre un problema da risolvere. Il problema consiste nel disequilibrio tra i cinque elementi. Prendete un attore e mettetelo in un’azione disequilibrata. Oppure l’attore ha due scopi e il fruitore della storia non capisce quale sia il suo reale obiettivo (shape-shifter). La drammatizzazione della storia nasce proprio qui, nello scostarsi dal canonico ed entrare nello straordinario. Lo spostamento dal canonico ha conseguenze morali. Un racconto ha in sé quindi sempre un aspetto morale ben definito, la sua partenza è lo spostamento dall’asse morale e il suo svolgimento è il tentativo di riportare l’ordine morale iniziale.

La quinta proprietà di una buona narrazione è il suo “paesaggio duplice” (J. Bruner, Actual Minds, Possible Worlds, 1986), ovvero ciò che succede nel supposto mondo reale accade contemporaneamente agli eventi mentali nella coscienza dei protagonisti. Il loro squilibrio è il problema che fa partire la narrazione. Interno (coscienza) ed esterno (mondo) negoziano continuamente il significato. “I racconti infatti si occupano di come i protagonisti interpretano le cose, e di quali significati le cose hanno per loro” (ib., 61). La letteratura modernista ha spostato l’attenzione più sugli stati mentali dei personaggi che sulle azioni che essi compiono. Questa svolta ha spostato l’attenzione ancora di più sugli aspetti ambigui del racconto. Un racconto per essere buono deve essere incerto. Un fatto è sicuro, è la realtà. Una storia è ambigua, nel senso che è aperta a diverse varianti di lettura.

Una sesta proprietà della narrazione è l’essere uno strumento per organizzare l’esperienza. La forma tipica di strutturazione dell’esperienza è narrativa: ciò che non viene strutturato in forma narrativa non viene ricordato (Jean Mandler lo dimostra in Stories, Scripts and Scenes, 1984) e questa strutturazione è sociale, non individuale, è finalizzata alla condivisione del ricordo nell’ambito di una cultura (Shotter, 1990).

La settima proprietà della narrazione è il suo essere un modo di usare il linguaggio. La sua efficacia dipende dalla sua ambiguità e incertezza (i formalisti russi la chiamano “letterarietà”), anche nel caso di storie quotidiane. “Essa dipende, in modo notevole, dalla forza dei traslati, dalla metafora, dalla sineddoche, dall’implicazione ecc. Senza di questi, perde la sua forza di “ampliamento dell’orizzonte delle possibilità”, di esplorazione dell’intero ventaglio dei legami tra l’eccezionale e l’ordinario” (Iser, The Act of Reading; Bruner, ib. p.68). Gregorio Samsa che si sveglia mutato in uno scarafaggio gigante e le sue preoccupazioni vanno tutte sul modo in cui riuscirà a prendere il treno delle sette per non fare tardi a lavoro è un continuo negoziare il significato tra ordinario e straordinario, tra abitudinario ed eccezionale. La metamorfosi (1912) di Franz Kafka comincia proprio così:

“Gregorio Samsa, svegliandosi una mattina da sogni agitati, si trovò trasformato, nel suo letto, in un enorme insetto immondo. Riposava sulla schiena, dura come una corazza, e sollevando un poco il capo vide il suo ventre arcuato, bruno e diviso in tanti segmenti ricurvi, in cima a cui la coperta da letto, vicina a scivolar giù tutta, si manteneva a fatica. Le gambe, numerose e sottili da far pietà, rispetto alla sua corporatura nomale, tremolavano senza tregua in un confuso luccichio dinnanzi ai suoi occhi.
Cosa m’è avvenuto? pensò. Non era un sogno. La sua camera, una stanzetta di giuste proporzioni, soltanto un po’ piccola, se ne stava tranquilla fra le quattro ben note pareti. Sulla tavola, un campionario disfatto di tessuti – Samsa era commesso viaggiatore – e sopra, appeso alla parete, un ritratto, ritagliato da lui – non era molto – da una rivista illustrata e messo dentro una bella conrince dorata: raffigurava una donna seduta, ma ben dritta sul busto, con un berretto e un boa di pelliccia; essa levava incontro a chi guardava un pesante manicotto, in cui scompariva tutto l’avambraccio.
(…)

E dette un’occhiata alla sveglia, che ticchettava sul cassettone. Dio del Cielo! pensò. Erano le sei e mezza e le lancette proseguivano lentamente il loro cammino, anzi la mezza era quasi passata e si avvicinavano già i tre quarti. La sveglia non aveva dunque funzionato? Si vedeva dal letto una lancetta regolarmente fissata sulle quattro e senza dubbio la sveglia doveva aver suonato. Ma era stato dunque possibile rimanere sordi nel sonno a quel suono che scuoteva i mobili? Certo, non aveva avuto un sonno tranquillo ma, forse perciò, tanto più pesante. Ed ora che cosa doveva fare? Il prossimo treno partiva alle sette; per riuscire ad acchiapparlo, bisognava che egli si affrettasse in maniera inverosimile; il campionario inoltre non era ancora pronto e del resto egli stesso non si sentiva molto fresco e svelto. Ma anche se fosse riuscito a prendere quel treno, un rimprovero dal principale non c’era da evitarlo, perché il fattorino della ditta lo aveva atteso al treno delle cinque, e certamente aveva già riferito la sua trascuratezza”.

Un mondo ordinario e abituale, quello del lavoro, della sveglia alle quattro e del treno alle cinque, dei genitori e della sorella Rita, viene stravolto nell’incipit del racconto trasportando il protagonista in un mondo straordinario in cui è avvenuta una metamorfosi: si è trasformato in un enorme scarafaggio. Eppure Gregorio Samsa non si dà per vinto e passa la mattina a pensare a come poter raggiungere l’ufficio, come riportare all’abitudine quel mondo ormai stravolto.

Esistono altre tre proprietà della narrazione secondo Bruner: l’agentività; la ricerca dell’insolito, la voce narrante. L’autore si rifà a molti studi compiuti sull’educazione dei bambini: essendo la narrazione un istinto, studiare come i bambini prelinguistici utilizzano questo strumento identifica le sue proprietà.
Come abbiamo già detto nel secondo capitolo, l’uomo è un animale narrante (storytelling animal) nel senso che usa la narrazione per creare il significato culturale del suo mondo. Uno dei risultati più stupefacenti dell’evoluzione umana infatti è la capacità di negoziare i significati con uno strumento molto efficace: l’interpretazione narrativa. Quella che Jerome Bruner chiama “psicologia popolare” è la facoltà dell’uomo di riportare dentro all’ordinario anche gli atti e i comportamenti che se ne discostano.Come? Attraverso il metodo narrativo. Perché? Perché la narrazione è un mezzo stupefacente: permette di veicolare il significato semplicemente ponendo elementi sconnessi dentro ad una striscia temporale di coerenza. Il significato che viene prodotto è ciò che ci permette di vivere la realtà come un luogo sensato e ordinato. Come scrive Bruner, “dal punto di vista filogenetico (…) il metodo [narrativo] si inquadra nell’evoluzione grazie al fatto che nei primati superiori (anche prima della specie homo) si è sviluppata una capacità cognitiva primordiale di riconoscere (e, in realtà, di sfruttare) le credenze e i desideri degli appartenenti alla propria specie, (…) una “teoria della mente” (Premack, 1978). Lo fanno anche i bambini: dall’inizio dell’uso del linguaggio, il bambino comincia a dare un significato al mondo attorno a sé, e questo significato è narrativo. Il bambino comincia a padroneggiare il linguaggio e a dare un senso al mondo, ma il linguaggio arriva dopo la capacità di narrare. In che modo? Secondo Bruner l’acquisizione del linguaggio in primo luogo ha bisogno di un vicario che si prenda cura del bambino. Il bambino infatti acquisisce il linguaggio attraverso l’uso: non basta imparare che cosa dire, ma anche tutto il contesto che ci sta attorno, e quindi a chi dirlo, come, e quando. In secondo luogo, certe intenzioni comunicative appaiono ben definite prima di saperle dire. E qui ricordiamo il gesto dell’indicare, tipico delle grandi scimmie più evolute e dei primi homo. Prima di sapere utilizzare il linguaggio per indicare una certa cosa, il bambino ha già interiorizzato l’intenzionalità attraverso il gesto: il linguaggio quindi sembra un’esigenza per soddisfare queste intenzioni. In terzo luogo, tramite la valutazione del contesto, il bambino acquisisce in maniera più efficace la prima lingua. Ed è proprio il contesto ad aiutarci a capire il particolare fenomeno dell’aggancio del significato da parte del bambino nel suo stadio prelinguistico. Secondo Bruner infatti, comprendere il contesto per il bambino è una “attitudine al significato” (ib., p.77) di tipo prelinguistico. “Esistono certe classi di significato nei confronti delle quali gli esseri umani si trovano “sintonizzati” in modo innato, nonché sospinti a un’attiva ricerca”. Queste classi esistono come “rappresentazioni protolinguistiche del mondo, la cui piena realizzazione dipende dallo strumento culturale del linguaggio”. (ib., p.78). L’essere umano quindi dispone di una attitudine prelinguistica per classi selettive di significato, una attitudine sociale al significato: predisposizioni adatte a costruire il mondo sociale attorno a lui. Significa quindi che il bambino, relativamente al suo contesto, costruisce sin da subito una psicologia popolare di come il mondo dovrebbe essere ordinato. Partendo da qui, Bruner afferma che “ciò che determina l’ordine di priorità in cui le forme grammaticali vengono assimilate dal bambino in tenera età è proprio la “spinta” a costruire una narrazione”. E noi ci troviamo d’accordo perché è ciò che afferma anche Michael Tomasello (2000) quando parla di costruzione di una grammatica da parte dei primi sapiens a causa della narrazione: è la grammatica ad essere stata costruita per facilitare una forma di comunicazione umana sofisticata come la narrazione e non viceversa. Il racconto ha bisogno di una struttura su cui appoggiarsi: è nato prima il racconto e poi la grammatica. E ancora una volta per necessità. Il bambino quindi impara prima a raccontare (con gesti e intenzioni) e poi a formulare un racconto con il linguaggio della grammatica. Un “istinto narrativo”, per dirla con Gottschall.

Ottava proprietà è quindi l’agentività (o agency): già il bambino manifesta la sua innata attitudine alla narrazione dalla comprensione dell’idea del riferimento: quando sa dare un nome a qualcosa. La sua attenzione è concentrata sull’azione di quel qualcosa, lo scopo e il suo conseguimento.

La nona proprietà è la ricerca dell’insolito: il bambino prelinguistico si concentra su ciò che è diverso dal canone. Questo dimostra l’aver interiorizzato un proto-ordine canonico che distingue giusto da non giusto, bene da male, e che lo proietta nel gruppo. Come ad esempio l’espressione “Oh, oh” quando la conclusione di un’azione è diversa dall’ordinario: il bambino sa di aver compiuto un gesto che non andava fatto. Come ricorda Bruner (p.82), “i bambini si fanno immancabilmente attenti in presenza dell’insolito: si mettono a guardare in modo più fisso, smettono di succhiare, presentano decelerazione cardiaca”. Imparare una lingua è uno sforzo che fanno per poter parlare piuttosto dell’insolito che dell’usuale.

Decima e ultima proprietà della narrazione è la voce narrante (tone of voice o prospettiva). Il bambino impara subito ad avere una propria voce narrante, possiede una capacità innata di organizzare il mondo narrativamente, un’attitudine protolinguistica al discorso narrativo. Questa attitudine precede qualsiasi grammatica, o meglio, è per necessità che la narrazione viene adeguata ad una grammatica: per poter raccontare in maniera sempre più elaborata. La cultura infatti propone poi continuamente altre narrazioni, e l’essere umano è costantemente affamato di storie perché sono il modo in cui crea il significato della realtà. “La spinta, da parte dell’uomo, a organizzare l’esperienza in modo narrativo è ciò che garantisce l’alta priorità di queste caratteristiche nel programma di acquisizione del linguaggio” (ib. p. 83). Bruner si chiede infatti se le narrazioni non possono avere la funzione di interpretanti precoci per le proposizioni logiche (enunciati oggettivi) visto che per il bambino è più facile comprendere una proposizione logica se inserita in una storia (Lurija, 1961; Donaldson, 1978). Prima del linguaggio nasce la narrazione, agente innato per la comprensione del mondo. Come abbiamo visto, sono gli eventi insoliti ad interessare per primi il bambino e a fargli fare lo sforzo di imparare una lingua, una grammatica per poterli veicolare.
Il bambino impara presto che il modo in cui veicola una storia è rilevante perché influenza ciò che ha fatto. Come scrive Bruner: “il logos e la praxis sono culturalmente inseparabili” (ib., p.85), come a dire che il racconto e il modo in cui viene raccontato sono un’unica entità. Agire e raccontare l’azione è per il bambino un’attività inscindibile dalla cultura dove il bambino vive. Dopo aver padroneggiato la lingua e le forme linguistiche adatte per indicare le azioni e le loro conseguenze, il bambino impara che “ciò che si fa è fortemente influenzato da come si racconta ciò che si sta facendo, si farà o si è fatto. Il narrare diviene non solo un atto espositivo, ma anche un atto retorico” (ib. p.90). Il bambino conosce già che cosa è bene e che cosa è male, qual è la forma canonica che va rispettata all’interno di una cultura e con quella dare un senso (anche di giustificazione) a tutto ciò che si discosta da essa. La ricompensa per il bambino è avere imparato ad utilizzare strumenti retorici come l’inganno e l’adulazione, ma anche altre forme di empatia. Grazie alle forme retoriche, il bambino fa la sua entrata nella cultura umana. Ad esempio, i soliloqui dei bambini sono il modo di dare un senso al mondo che li circonda probabilmente selezionando i pensieri (Dewey). Labov osserva infatti che “ciò che è accaduto è strettamente determinato dall’ordine e dalla forma della sua sequenza” (ib., p.92).

L’uomo impara a parlare proprio per poter raccontare. Abbiamo già visto che il racconto ha molte funzioni per così dire “esterne” o sociali come la coesione sociale, il fare esperienza mentale prima di farla nella realtà, la possibilità di condividere informazioni; la moralità di un gruppo; e altre funzioni “interne” che si reggono tutte sulla costruzione del significato del mondo attorno a sé. Ma anche questa vitale funzione è in qualche modo “esterna” o pro sociale: costruire un significato non è soltanto necessario per dare ordine al mondo, ma per mantenere la pace all’interno di quel mondo. Una narrazione può essere definita anche come una spiegazione. L’uomo vive nel costante disequilibrio dell’ordine canonico e la narrazione è il mezzo interpretativo che cerca di portarlo costantemente al suo posto. “I racconti trasformano la “realtà” in una realtà attenuata” (ib. p.98), scrive Bruner. Il caos viene ristabilito in un ordine che dà vita ad una cultura. Come afferma J. Gottschall, siamo come pesci nell’acqua, immersi nelle storie in modo impalpabile. E queste storie definiscono la nostra cultura perché danno senso al mondo che ci circonda.

Riassunto capitolo 3:

Il meccanismo della narrazione consiste nella costruzione del significato con l’uso di singole unità narrative poste coerentemente in una sequenza temporale. Narrare è un istinto. Il bambino in età prelinguistica costruisce il senso del mondo attorno a sé e impara una lingua per la necessità di raccontarlo. La narrazione ha otto diverse proprietà secondo lo psicologo Jerome Bruner (La ricerca del significato, 2000):

1) sequenzialità: ogni narrazione è una sequenza di eventi in un dato tempo. La prima proprietà delle narrazioni è anche la più importante: non esiste narrazione se non posta in una linea temporale. La sequenzialità è un aspetto fondamentale perché l’atto di comprensione di una narrazione non può essere slegato dalla compenetrazione dei personaggi nella sequenza della trama. Come scrive Bruner, quando si sta fruendo di una storia, “l’interprete della storia deve coglierne la trama portante per poter capire il senso delle sue componenti, per metterlo poi in relazione con la trama. Ma la forma della trama deve, a sua volta, venire estratta dalla successione degli eventi” (ib.).

2) indifferenza ai fatti: il cervello non fa differenza tra una storia reale e una immaginaria. Le sostanze prodotte sono le stesse. Difficile capirne il motivo. Bruner si affida alla tradizione e afferma che il motivo deriva dal fatto che tutti deriviamo dallo stesso patrimonio di racconti orali che non facevano distinzione tra l’uno e l’altro. Aristotele per primo propone il concetto di mimesis, immedesimazione: l’arte copia la vita e viceversa. La narrazione quindi è tale in qualsiasi modo venga esposta, sia reale che di finzione. Il suo meccanismo non cambia.


3) negoziazione significato: la narrazione si occupa dello straordinario mentre la psicologia popolare dell’ordinario. Per rendere abituale e comprensibile l’eccezionale, si ricorre al meccanismo di ricerca del significato della narrazione. Agire secondo le abitudini di un gruppo o di una società non fa cercare il significato perché il senso è autoesplicativo. Ma se la validità di una cultura è proporzionale alla sua capacità di gestire i conflitti, di negoziare i significati sociali, la narrazione entra in gioco ogni qual volta ci sia il bisogno di spiegare un’azione che risulta fuori dall’ordinario in una costante negoziazione del significato.

4) aspetto teatrale: Bruner prende la pentade di Burke come una delle proprietà della narrazione. I cinque elementi (attore, scena, agency, scopo e azione) sono sempre collegati al problema. Lo spostamento dall’ordinario di anche solo uno dei cinque elementi dà il via alla narrazione.

5) paesaggio duplice: scrive Bruner che ciò che succede nel supposto mondo reale accade contemporaneamente agli eventi mentali nella coscienza dei protagonisti. Questo “paesaggio duplice” di soggettività rende il racconto incerto perché è ciò che differenzia un fatto da una storia.

6) organizzazione dell’esperienza: Jean Mandler nel 1984 dimostra come ciò che non viene strutturato in forma narrativa non viene ricordato. L’esperienza viene vissuta e tramandata in forma narrativa.

7) un modo di usare un linguaggio: ancora torniamo sull’aspetto di incertezza delle narrazioni: la costruzione del significato è soggettiva e la forza di una narrazione è dipesa dalla sua letterarietà, dallo stare sul confine tra ciò che è ordinario e la sua eccezionalità. Il titolo di un racconto fa da esempio: La leggenda del santo bevitore (1976) di Joseph Roth: un titolo ambiguo per un racconto ambiguo: un vagabondo che dorme sotto i ponti della Senna si ritrova con una fortuna che deve consegnare alla piccola Santa Teresa nella chiesa di Santa Maria di Batignolles. Riuscirà a consegnarla o se la berrà tutta con un pernod dopo l’altro? La domanda fa partire la narrazione che non può essere che ambigua.

8) ricerca dell’insolito: in un mondo prelinguistico il bambino ha già costruito un proto-ordine sociale. Questo significa che diventa ben più interessante il disordine. La narrazione si sviluppa proprio come veicolo di spiegazione dell’insolito per l’innata attitudine all’ordine della mente.

Oggi, in un mondo in cui l’esperienza viene spesso catalogata in un codice binario che tende a standardizzare e spesso banalizzare i significati, la ricerca del significato è cruciale per riportare la narrazione al centro del meccanismo di interpretazione che l’uomo attua continuamente lungo tutto il corso della sua vita. Capire significa negoziare il significato e negoziare significa utilizzare un meccanismo narrativo. Le otto proprietà che abbiamo appena analizzato ci permettono di definire che cosa significa creare o fruire di una buona narrazione.

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