Capitolo 4: La narrazione come strumento di indagine sociale

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Partire dalla letteratura per comprendere i significati narrativi è importante perché, come scrive Albright (p.19), “se la psicologia è un giardino, la letteratura è una giungla”. La letteratura è affascinata dalla natura non ancora addomesticata con tutte le sue irregolarità e deformazioni, mentre la psicologia è ossessionata dagli strumenti di giardinaggio e dalla pulizia metodologica. La narrazione (o meglio la narratologia) si colloca proprio in questo punto: è uno “strumento euristico” (Mieke Bal, 1997) che può e deve essere usato insieme ad altre teorie. In questo senso la analisi narrativa diventa un’attività di “analisi culturale” che è una forma di interpretazione della cultura.
Nelle narrazioni che ci interessano più da vicino e quindi quelle legate al mondo aziendale, sembra che la letteratura abbia poco a che fare. E invece analizzare i testi letterari è un utile e forse indispensabile modo per capire l’ambiguità dei testi (in senso semiotico) nel quotidiano. Ciò che succede in letteratura difficilmente capita nella realtà. Eppure proprio lo studio di aspetti per così dire “estremi” porta ad una comprensione maggiore di aspetti quotidiani. L’analisi di narrazioni aziendali ha più a che fare con l’etnologia, l’antropologia e la psicologia che con la letteratura. Eppure, come è reso evidente dal paper pionieristico del 1967 di William Labov e Joshua Waletzky “Narrative Analysis: Oral Versions and Personal Experience”, il confine narrativo tra fiction e non-fiction è quantomai opaco. Cynthia Bernstein (1997, p.45) scrive che “nonostante ogni storia possa essere classificata come naturale o letteraria, orale o scritta, semplice o complessa, queste classificazioni non sono opposizioni binarie, ma meramente gli estremi definibili di infinite possibilità”. E proprio le possibilità interpretative di un discorso sono il campo in cui opera la negoziazione del significato.
Michail Bachtin per primo ha introdotto il concetto della natura polisemica e multi-vocale della narrazione (1973) analizzando i romanzi di Dostoevsky. Lo stesso meccanismo è stato poi usato per lo studio di registri non tipici della letteratura, come le scienze sociali. Questo ha rivelato analogie strutturali tra il discorso romanzesco, le storie di vita e la memoria autobiografica, che infine hanno portato a nuovi concetti sulla “mente multi-vocale” e il “sé dialogico” (Hermans & Kempen 1993; Wertsch 1991). La ricchezza della lingua letteraria è descritta da Bachtin come tropi o traslazioni (o forme di linguaggio figurativo) che sono elementi costitutivi dei romanzi. Ciò che nella sua visione è distintivo dei romanzi moderni come il senso specifico della temporalità, la polifonia e l’intertestualità (ogni testo deriva e si riferisce ad un altro testo) è una caratteristica basilare della costruzione narrativa di una vita. Ogni testo è incorporato in un universo di testi e non ne può mai essere completamente scollegato. Ricordiamo il film Rashomon di cui abbiamo accennato nel secondo capitolo. L’ambiguità della storia è la sua cifra. Se ogni racconto è parte di una vita incorporato in un contesto vivente di interazione e comunicazione, intenzione e immaginazione, ambiguità e vaghezza, potenzialmente esiste sempre una nuova e diversa storia da raccontare perché ci saranno sempre diverse situazioni in cui raccontarla. Tutto ciò crea una dinamica che mantiene viva le storie di vita attuali con le storie possibili di vite possibili, e le innumerevoli combinazioni tra loro. Un film recente lo racconta: Mr Nobody di Jaco Van Dormael (2009), in cui il protagonista vive le possibilità (e conseguenze) contemporanee di tre vite diverse.
La conseguenza è che le narrazioni quotidiane, come la maggior parte dei testi letterari, possono essere considerati come aperti, senza fine. Bachtin le definisce “non finalizzabili” perché la vita apre sempre diverse opzioni (reali o finzionali), include più significati, più identità, evoca più interpretazioni di quante possano essere espresse da tutte le storie di vita possibile. Bachtin lo descrive con una bella metafora “tutti i vestiti che si possono indossare sono sempre troppo stretti” (1981, p.37). Le possibilità sono molte di più di quelle realizzabili, i significati sono sempre limitati alla capacità di narrarli. La teoria del discorso narrativo di Bachtin suggerisce che l’uomo sta sempre ricostruendo il senso di se stesso ed è sempre pronto a rendere false (o meglio, non vere) qualsiasi definitiva versione di se stesso. Il campo di ricerca è la “psicologia narrativa”, che ha raccolto un numero sempre maggiore di contributi partendo dagli anni Ottanta del XX secolo. Per la psicologia narrativa, lo storytelling diventa un “atto di resistenza contro il paradigma Cartsiano della razionalità dominante” (Lewis e Sandra Hitchman, 1997). Le scienze umane hanno cominciato a trattare le narrazioni come il mezzo (agency) attraverso il quale la vita sociale e culturale si realizza. Secondo Lewis e Sandra Hitchman (ib.), la narrazione può diventare un concetto organizzativo da utilizzare in vari contesti di studio. Le scienze sociali quindi userebbero una “grand narrative” fittizia che intende emulare le scienze naturali ma che non potrà mai esistere perché ingloberebbe la varietà di interpretazioni tipica delle scienze sociali. La narrazione ha quindi questo compito: fungere da mezzo per l’indagine sociale. Nel dibattito accademico questa “svolta” si definisce in molti modi come “svolta interpretativa”, “svolta discorsiva”, “svolta culturale”, “svolta post-strutturalista”. La psicologia narrativa si inserisce in questo discorso come l’orientazione teoretica e metodologica che mira a esaminare la natura e il ruolo del discorso narrativo nella vita, nelle esperienze e nei pensieri dell’uomo.

L’idea di base è che nell’ordinare l’esperienza, nel dare forma alle intenzioni, nell’uso della memoria, e nella strutturazione della comunicazione si usano le narrazioni. Come afferma Bruner (capitolo 3), le narrazioni sono il cardine tra la mente e la cultura: le storie che raccontiamo a noi stessi su noi stessi e sugli altri organizzano la nostra identità e quella degli altri e il modo in cui ci relazioniamo. Il modo in cui impariamo a raccontare, capire e valutare le storie e l’uso di alcuni racconti al posto di altri per raggiungere certi obiettivi è la “psicologia culturale” secondo Bruner (2000).

La narrazione quindi diventa lo strumento adatto per indagare la realtà sociale perché ha la proprietà di strutturare l’esperienza in una sequenza coerente e interpretabile e perché si trova a proprio agio in contesti ambigui e incerti.

Barbara Poggio (2004, p.16) ricorda come l’”era della narrazione” (Ruthellen Josselson 1995) che stiamo vivendo arriva dopo una “lenta erosione delle certezze che a lungo avevano alimentato le “grandi narrazioni” moderniste, fondando la legittimità del pensiero occidentale sui costrutti di razionalità e progresso. (…) Nel 1979 Jean-Francois Lyotard descrive questo processo come il passaggio dalla modernità ad una condizione postmoderna, caratterizzata dal politeismo dei modelli di conoscenza e dal riemergere del sapere narrativo. Lyotard contrappone il sapere narrativo alla conoscenza scientifica, una forma di conoscenza legittimata nella società modernista, paradossalmente grazie al supporto di una narrazione che la definisce come essenziale per il progresso umano”. Ancora Bruner ci viene in aiuto (1986) dividendo pensiero scientifico da pensiero narrativo: il primo orientato alla categorizzazione e alla generalizzazione; il secondo alla comprensione e interpretazione dei significati e dei modi in cui gli individui organizzano la propria esperienza. L’attenzione viene spostata dal binomio vero-falso alla trama e quindi alla relazione tra eventi in una storia e loro costruzione del significato. Il motivo è intuibile: cercare di analizzare le scienze sociali con strumenti binari restringe le possibilità di interpretazione di un oggetto profondo e multiforme. I già citati vestiti troppo stretti di Bachtin (capitolo 3). L’uomo è immerso nelle storie, è un innato storyteller perché attraverso le storie crea il significato del mondo attorno a sé. “La narrazione assume dunque non solo un valore epistemologico, in quanto metafora utile alla comprensione del mondo (Sarbin, 1986), ma anche un valore ontologico, in quanto dimensione attraverso la quale gli individui si presentano a se stessi e agli altri (Cortese, 1999)” (ib., p.20).

L’approccio post modernista di Lyotard (1979) pone le narrazioni al centro del modo in cui si trasmettono le regole pragmatiche del legame sociale. Nella condizione postmoderna non esistono più le grandi narrazioni univoche e coerenti ma tante frammentate e piccole narrazioni anche in contraddizione tra loro (vedi il paper Tamara-Land di David Boje). L’epoca postmoderna in cui viviamo è un continuo cambiamento liquido di eventi inafferrabili.

Con quest’ottica, come ricorda Poggio (ib, p.31), “Se oggetto delle scienze sociali è l’agire sociale in quanto agire dotato di senso, la narrazione diviene senza dubbio un luogo privilegiato per la costruzione del senso dell’agire”. La narrazione è una azione sociale per tre motivi: per prima cosa è un atto pro sociale. Si racconta qualcosa a qualcuno per uno scopo. In secondo luogo la narrazione fa uso del linguaggio, che è di per sé un atto dialogico. Addirittura “ogni enunciato linguistico è parte di una catena dialogica in cui si risponde a storie già raccontate utilizzando modelli preesistenti (Bachtin, 1975). Terzo motivo è il fatto che la narrazione può essere vista come costruzione sociale. Attraverso il racconto noi diamo un senso alla realtà, la portiamo dentro a binari a noi più familiari, giustifichiamo comportamenti e rendiamo plausibili eventi che non lo sembrano prima dell’atto interpretativo della narrazione. Essendo una azione sociale, la sua funzione è quella di “dare forma al disordine dell’esperienza (Eco, 1994, p.107, Sei passeggiate nei boschi narrativi). “Quando le persone mettono ordine nella loro vita sotto forma di storie, impongono una coerenza formale su quella che altrimenti sarebbe una zuppa fluida” (Weick, 1995). La realtà viene organizzata attraverso le storie con strutture cognitive anche chiamate schemi. Lo schema è il prodotto della distinzione tra ordine e caos, tra ordinario ed eccezionale. Si parte da uno schema e si analizza ogni nuovo evento interpretandolo per porlo all’interno del proprio schema di significato. Gli schemi sono di due tipi: lo schema di storia e il copione.

Lo schema di storia riguarda più la sintassi che l’aspetto semantico e permette di riconoscere un oggetto nel contesto ponendolo in un più ampio sistema di conoscenze; ha funzione inferenziale nel senso che attribuisce all’oggetto proprietà non direttamente percepite; infine permette di ottenere informazioni utili per la risoluzione di un problema.

Il copione (scripts) è un sistema di aspettative verso cui ci si attende un certo comportamento da un dato oggetto. Il copione è il modo in cui una storia dovrebbe andare. Sono modificabili e sono il risultato di esperienze personali e la grande quantità di artefatti narrativi di cui fruiamo quotidianamente. Grazie ai copioni noi possiamo predire le sorti di una storia. Certo è che non tutti i copioni vanno come ci si attende e quindi la loro grande economia di risorse viene bloccata dallo sforzo necessario per negoziare il significato in caso di sorprese e colpi di scena.

Interpretare la realtà con le narrazioni diventa quindi il principale modo con cui facciamo esperienza. L’interpretazione è il modo in cui diamo significato a qualsiasi esperienza che viviamo. E questo avviene in modo retrospettivo. Il significato di una azione è costruito soltanto se posto in relazione con altre azioni creando quella sequenzialità che è la proprietà principale delle narrazioni (Bruner, capitolo 3). Poggio cita Hannah Arendt quando scrive “la storia rivela il significato di ciò che altrimenti rimarrebbe una sequenza intollerabile di meri eventi” (Arendt, 1973) e Yiannis Gabriel: “se l’azione umana raggiungesse sempre i risultati attesi non ci sarebbe spazio per le storie. Nè ci sarebbe spazio per le storie se noi vivessimo in un mondo perfettamente ordinato e razionale, come la Repubblica di Platone” (Gabriel, 2000, p.239). Platone infatti definisce i poeti come corruttori della società perché la poesia imita la realtà ma la trasfigura. La vita invece si svolge in modo ignoto e frammentario, senza un ordine prestabilito. Siamo quindi preda di un caos costante che può essere aggiustato con la leva della narrazione. Secondo Karl Weick (1995), il sense-making consente di spiegare le sorprese grazie ad un processo cognitivo retrospettivo. Porre gli elementi passati all’interno di una storia permette di dare loro un senso nel presente e di predire che cosa potrà accadere in futuro.

Certo è che se una storia rimane all’interno delle nostre cornici cognitive di riferimento, difficilmente l’azione sarà saliente. Le deviazioni sono ciò che stimola l’appetito narrativo perché ci obbliga a far funzionare quel meccanismo di negoziazione del significato che rende quelle azioni più familiari e quindi conoscibili e dotate di senso. Ma come è possibile creare queste nuove dimensioni di abitudine e ordine? I modi sono cinque (ib. p. 37)

1) si ricercano gli antecedenti: quali elementi già appresi nell’esperienza (anche indiretta) possono dare conto delle cause per cui è avvenuta la discrepanza.
2) il ragionamento analogico per cercare nel passato eventi che posti insieme possano dare un senso al nuovo evento.
3) facendo riferimento a presupposizioni astratte e principi generali.
4) attraverso il ricorso a forme di rappresentazione sugli stati mentali e intenzionali dei personaggi.
5) attraverso i tropi (Bachtin), che rendono le narrazioni più persuasive e accrescerne il valore estetico (Smorti, 1994).
Poggio poi riflette sulle proprietà e sugli elementi strutturali delle narrazioni. Le proprietà, come abbiamo già visto con Bruner (capitolo 3), sono le seguenti: la sequenzialità temporale; la drammaticità (Burke); l’intenzionalità dell’azione umana; il problema; l’incertezza; la coerenza (in cui non importa se il racconto è vero o soltanto veritiero, è l’indifferenza ai fatti di Bruner).
Gli elementi strutturali sono invece: la trama; le funzioni; il genere letterario; tone of voice e prospettiva; grammatiche e schemi; opposzioni binarie. Vediamole in dettaglio.


1) Trama: la trama non è soltanto la linea del tempo su cui si appoggiano tutti gli eventi in ordine sequenziale, ma anche la forza dinamica e l’intenzionalità che conferisce forma e significato alla narrazione (Brooks, 1984). La trama riguarda sia il narratore che il pubblico, che costruisce un significato soggettivo. Gestire la trama ha la funzione di costruire il significato perché porre gli stessi elementi di una storia in ordine cronologico diverso può far cambiare il senso alla narrazione.

2) Funzioni: La morfologia della fiaba di Vladimir Propp (1928) presenta le funzioni universali delle storie, tanto importanti da superare il ruolo dei personaggi e degli eventi che si raccontano. La funzione è “l’operato di un personaggio, determinato dal punto di vista del suo significato per lo svolgimento della vicenda” (p.27). Nella vita quotidiana, le funzioni delle storie sono 7:
a) funzione referenziale: ciò che la narrazione comunica rispetto al mondo, il “cosa” si racconta.
b) funzione relazionale: la relazione tra narratore e audience. Raccontare significa tenere implicitamente conto delle aspettative del pubblico.
c) funzione identitaria: il narratore esprime la propria identità.
d) funzione testuale: la struttura del racconto, il modo in cui le varie parti sono messe in relazione.
e) funzione ludica: l’affabulazione, il piacere del raccontare e dell’ascoltare la storia.
f) funzione normativa: il racconto ha la funzione di creare una cornice normativa di regole della cultura di appartenenza .
g) funzione morale: una narrazione è implicitamente un veicolo di una certa morale perché identifica ciò che è giusto e ciò che è condannabile.

3) Genere letterario: scegliere un genere piuttosto che un altro (commedia, tragedia etc) è il modo in cui costruiamo il significato. Anche saltare da un genere all’altro è viatico di negoziazione del senso. Per Bruner (1991), i generi forniscono una guida per la mente, in quanto influenzano i nostri modi di pensare e di creare la realtà (Poggio, ib. p.46).

4) Voce e prospettiva: La voce è il modo in cui il narratore si relaziona con il pubblico; la prospettiva invece il modo in cui chi racconta si relazione con la storia.

5) Grammatiche e schemi. Le grammatiche di una narrazione definiscono le regole sottostanti alla struttura di un testo narrativo. Gli schemi sono le mappe cognitive dentro cui definire una data azione come negoziabile di significato. Le narrazioni sono utili per comprendere il significato degli eventi perché sono organizzate strutturalmente e tendono a ripetere schemi

ricorrenti. Secondo gli antropologi strutturalisti francesi, le narrazioni sono i canali principali della trasmissione culturale (Lévi-Strauss, 1958): “ogni azione assolve a specifiche funzioni narrative, solitamente collocate in un ordine stabilito, in cui si parte da un problema e, attraverso funzioni intermedie, si giunge infine alle funzioni risolutorie” (Poggio, ib. p.46).

6) Opposizioni binarie: Secondo Lévi-Strauss (1958), le narrazioni tendono a svilupparsi come opposizioni piuttosto che linearmente in termini di funzioni (Propp, 1928). Algirdas Greimas li accomuna (1983), e nel tentativo di costruire una grammatica narratologica universale, individua opposizioni binarie come soggetto-oggetto, destinatario-destinatore, aiutante-oppositore a cui corrispondono funzioni narratologiche come il desiderio, la comunicazione, il supporto.

Oggi in quale epoca narrativa ci troviamo? Date per superate le grandi narrazioni coerenti e univoche della modernità che seguivano un semplice ordine cronologico dei fatti, ci troviamo in un post-modernismo di frammenti incoerenti di storia (Lyotard, 1979). Le storie quindi assomigliano di più alla vita, fatta di elementi narrativi incongrui e inaspettati cui cerchiamo in tutti i modi di dare un significato. Le forme narrative post-moderne sono polifoniche (Bachrin, 1963) e simultanee. Secondo Ricoeur (1983), in questo tipo di narrazioni la forma spaziale tende a soppiantare quella temporale. Boje conia il termine ante-narrative per intendere quelle storie che vengono prima della narrazione intesa come coerenza e costruzione di significato. Le ante-narratives sono l’unico tipo di narrazione possibile perché ricalcano la vita umana fatta di significati mai completamente afferrabili perché sempre mutevoli e reinterpretabili.

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