Capitolo 5: Narrazioni nelle organizzazioni

Come possiamo analizzare le narrazioni in un contesto così sfuggevole? La svolta narrativa degli ultimi venti anni del XX secolo ha posto la sua attenzione anche al mondo delle imprese. Le organizzazioni non sono soltanto un contenitore di storie che continuano ad essere raccontate. Le storie che si raccontano sono gli strumenti e i processi per organizzano l’impresa. Le narrazioni, come ricorda Poggio (ib., p.91), servono sia agli individui “per dare un senso alla realtà organizzativa in cui si trovano, che per trovare una collocazione ed una identità al suo interno”. Le narrazioni all’interno delle organizzazioni sono di tre tipi:
a) le narrazioni raccontate dagli individui
b) le narrazioni create per raccontare le organizzazioni
c) la vita organizzativa come testo narrativo.
Le narrazioni all’interno delle organizzazioni sono artefatti analizzabili per scoprire “i modi in cui le persone costruiscono mantengono e cambiano il loro ambiente organizzativo, producendo una conoscenza condivisa della realtà ed elaborando degli schemi di attribuzione di senso” (Witten, 1993, in Poggio, ib. p.93).
Per Karl Weick infatti, “la maggior parte delle realtà organizzative sono basate sulla narrazione” (1995). Secondo Barbara Czarniawska, le narrazioni nelle e delle organizzazioni sono un vero e proprio genere narrativo moderno e post-moderno e in questo senso vanno analizzate, nella loro costruzione ed uso (1997).

Le narrazioni raccontate dagli individui: il punto a) si riferisce alle narrazioni raccontate dagli individui. Nell’analisi di queste storie si raccolgono i racconti che vengono narrati all’interno delle organizzazioni. La raccolta avviene sul campo (solitamente con registratori) e non risulta semplice perché si riescono a raccogliere solo storie indotte da un intervistatore e difficilmente le “vere” storie raccontate, poniamo, alla macchinetta del caffè. Le storie raccolte sono: aneddoti, miti, saghe, storielle etc. Il ricercatore quindi ricalca il lavoro dell’etnografo e dello studioso di folklore, come suggerisce Yiannis Gabriel. Questo tipo di storie non sono miti perché analizzarli con la lente del mito porta al rischio di generalizzazione e di universalizzazione. Piuttosto si analizzano le storie raccolte “esaminando il modo in cui particolari eventi producono determinate narrazioni e perché certi eventi generano storie e altri no” (ib. p.93). Questo serve ad “accedere a dimensioni organizzative più profonde e far emergere i vissuti organizzativi, i modelli culturali, le dinamiche di potere ed altre importanti dimensioni e processi dell’esperienza organizzativa (…) e alle costruzioni simboliche e cognitive dei membri delle organizzazioni” (Gabriel, 1998, cit. in ib. p.93).
Il ricercatore sociale di storie organizzative metterà in luce il perché alcuni eventi aziendali sono in grado di far partire delle narrazioni e altri eventi invece no. E i significati, le norme e i valori che veicolano. Infine che cosa rivelano rispetto alle esperienze e alle percezioni di chi le racconta.
Le storie sono quel metodo che permette di vedere tra le righe le dinamiche nascoste all’interno delle organizzazioni: dinamiche relazionali e di potere, emozioni, affetti, contraddizioni e ambivalenze (Gabriel, 1995, 1998, 2000). Le narrazioni infine sono il faro che illumina le dinamiche nascoste delle organizzazioni.

Le narrazioni create per raccontare le organizzazioni: ogni account è anche una narrazione e quindi il risultato di una ricerca sulle narrazioni delle organizzazioni è essa stessa una narrazione. Soprattutto per le “ricerche che si basano sugli studi di caso, in cui la cronologia rappresenta l’asse portante del discorso” (ib. p.94).

La vita organizzativa come testo narrativo: in questo caso si utilizzano le tecniche interpretative degli studi letterari per analizzare i testi che si manifestano nelle organizzazioni. Silvia Gherardi (2000) identifica sei tipi di modi di porsi da parte dei ricercatori:
1. le storie come oggetti di collezione: il ricercatore individua le trame e gli archetipi ricorrenti delle storie raccolte (vedi Martin et al, 1983).
2. le storie come artefatti simbolici: utili per accedere a livelli più profondi e nascosti di significato come dinamiche di controllo, adattamento e cambiamento (vedi Frost et al., 1985; Turner, 1990).
3. le storie come testo da decostruire: il fine è portare alla luce dinamiche di potere e processi di dominio attraverso un metodo decostruzionista (vedi Martin, 1990; Boje, 1995).
4. le storie come testo aperto: artefatti incerti, instabili e mutevoli (vedi Sims, 1999).
5: le storie come processo di storytelling: “in questo caso il narrare come spazio e processo di espressione delle soggettività e quindi di dimensioni quali emozioni, immaginazione, sentimenti che si sottraggono alla gestione deliberata e al controllo delle organizzazioni” (Gabriel, 2000, cit. in ib. p.95)
6: le storie come locus di formazione delle istituzioni e delle identità istituzionali: la narrazione è un processo che formula e costruisce l’identità organizzativa, in cui sia il narratore che il pubblico sono coinvolti nella sua accettazione o rifiuto (vedi Czarniawska, 1997).

Studiare le narrazioni all’interno delle organizzazioni significa poter utilizzare almeno dieci diversi metodi:
1. Identità organizzativa
2. Socializzazione alla cultura organizzativa
3. Pratiche di genere
4. Sense-making organizzativo
5. Risoluzione dei problemi e presa delle decisioni
6. Legittimazione del potere ed esercizio del controllo
7. Definizione delle carriere
8. Espressione delle emozioni e dei vissuti affettivi
9. Narrazioni di cambiamento, narrazioni per cambiare
10. Molteplicità di storie

1. Identità organizzativa. Barbara Czarniawska parte dal concetto di accountability, la responsabilità del racconto da parte del narratore. Le organizzazioni sono intese come individui in grado non solo di raccontare ma di prendere decisioni. La responsabilità è legata all’esigenza di rendere conto delle proprie azioni ed essere quindi accettate o meno dal pubblico. L’organizzazione è un organismo con una specifica identità antropoformizzata. Questa visione è tipica della modernità (e post-modernità) in cui l’individualità ha presa il sopravvento sulla comunità: il significato viene costruito all’interno di narrazioni autobiografiche.

2. Socializzazione alla cultura organizzativa. Raccontare significa creare un legame tra il narratore e il pubblico. In una società questo fenomeno porta alla costruzione di un significato condiviso. All’interno delle organizzazioni, analizzare lo storytelling significa accedere a significati più profondi rispetto alla socializzazione all’interno della cultura organizzativa. “Le narrazioni trasmettono infatti i valori condivisi dai membri dell’organizzazione, generano appartenenza e coinvolgimento, prescrivono il modo giusto di agire, delineano le conseguenze per chi si adegua e per chi trasgredisce: forniscono dunque delle informazioni cruciali per la partecipazione alla vita organizzativa” (Wilkins, 1983, 1984, cit. in ib. p.97). Le storie raccontate delimitano il perimetro di valori e norme dentro cui vivere all’interno dell’organizzazione. Questo perimetro aiuta chi vive nell’organizzazione a categorizzare gli eventi. Anche la leadership è veicolata dalle storie perché le narrazioni raccontate da un leader possono “costruire immagini solide per il passato e avvincenti per il futuro, facilitando l’identificazione dei membri con i successivi passi dell’organizzazione” (ib. p. 97). Per fare parte del gruppo occorre conoscerne le storie, pena l’esclusione.

3. Pratiche di genere. Il genere maschile e femminile “non è qualcosa che si ha o che si è ma qualcosa che si fa e che si dice” (Gherardi, 1994; Martin, 2003, cit. in ib. p.98). Le narrazioni sono il materiale adatto per indagare le differenze di genere che vengono raccontate all’interno delle organizzazioni. Anche la narrazione delle “quote rosa” ad esempio è una “narrazione maschile”. Le organizzazioni sono luoghi in cui questo tipo di narrazione è egemone. Le storie raccontano le gerarchie, l’autorità, la differenza. Raccoglierle significa fare luce sul modo in cui il significato di genere viene costruito all’interno di una organizzazione.

4. Sense-making organizzativo. Karl Weick considera la produzione retrospettiva del significato il principale processo manageriale: le storie organizzative servono ad attribuire un significato possibilmente condiviso agli eventi (Cortese, 1999), preservare plausibilità e coerenza, integrare aspettative ed esperienze, spiegare le incongruenze (Weick, 1995). Gli individui che lavorano all’interno di una organizzazione ne percepiscono l’identità attraverso le storie che vengono veicolate. Gli attori che veicolano le storie sono spesso i manager perché hanno accesso alla stanza dei bottoni dell’impresa. Raccogliere le loro storie significa capire il modo in cui l’identità viene percepita, elaborata e argomentata (Gabriel, 1998). Il senso viene costruito all’interno di queste narrazioni, l’organizzazione viene quindi vista come un “sistema di storytelling collettivo in cui la rappresentazione di storie è parte cruciale della produzione di senso da parte dei membri e un mezzo che consente loro di supportare le memorie individuali con memorie istituzionali (Boje, 1991). Il significato è comunque sempre costruito retrospettivamente: serve a consolidare le storie presenti rendendole coerenti con la narrazione aziendale e quindi modificandole a vantaggio dell’impresa, e a proiettare una visione futura con una nuova narrazione.

5. Risoluzione dei problemi e presa delle decisioni: una delle funzioni delle storie è quella di fungere da strumento di problem-solving. Il significato riporta un evento inaspettato all’interno del perimetro dell’ordinario. Anche questo è un compito del leader: costruire narrazioni che giustifichino e diano una soluzione ai problemi che necessariamente spuntano nella quotidianità lavorativa. In realtà molte delle storie problem-solver sono narrate a tutti i livelli dell’azienda. Orr (1990, 1996) porta l’esempio dei tecnici delle fotocopiatrici Xerox, che attraverso il racconto portano all’interno della comunità un bagaglio di informazioni cruciali per la sopravvivenza stessa della comunità, superando la gerarchia tradizionale che vedrebbe il risolutore venire da un piano più alto della piramide gerarchica.

6. Legittimazione del potere ed esercizio del controllo. Ogni storia organizzativa racconta e quindi legittima i ruoli e le norme da seguire all’interno dell’organizzazione: un controllo indiretto. Questo controllo crea una cultura di obbedienza al lavoro distinguendo nettamente chi sta sopra e chi sta sotto nella gerarchia organizzativa. Interessante il lavoro di David Boje (1995, 2001) nel recuperare le voci inascoltate delle organizzazioni con il fine di raccontare una storia diversa da quella ufficiale. Famoso il suo lavoro sulla Walt Disney Company e le differenze evidenti tra la condotta raccontata dai manager e le reali condizioni di lavoro raccontate dai dipendenti.

7. Definizione delle carriere. Sono molti i testi che raccontano i percorsi di carriera, il curriculum vitae ne è un esempio. Ma forse il più interessante percorso di carriera è la storia imprenditoriale: storie eroiche, epiche, drammi superati grazie all’ingegno e (quasi sempre) alla caparbietà dell’impreditore-eroe. Attraverso queste storie, vengono definiti modi in cui l’imprenditore ha effettuato le proprie scelte manageriali. Sono molti gli esempi. Tra i libri più recenti, Walter Isaacson nel 2011 ha dato alle stampe Steve Jobs, biografia autorizzata del fondatore di Apple. Il fatto che sia uscito a tre settimane dalla morte di Jobs e che sia una biografia autorizzata, fa subito presagire una retorica buonista del personaggio per non rendere giustizia alla realtà ma per accrescerne la fama. Un piccolo esempio di racconto dei collaboratori di Jobs tratto dal libro di Isaacson:


Steve ha un campo di distorsione della realtà. […] In sua presenza la realtà è malleabile: lui è in grado di convincere chiunque di qualunque cosa. Appena esce dalla stanza, il campo svanisce, ma questo rende difficile fare programmi realistici.

Il libro è stato voluto dallo stesso Jobs, che ha scelto Isaacson come famoso biografo dei grandi della Storia, un testamento da lasciare ai quattro figli con cui ammette di non aver passato molto tempo insieme. Il libro nasce da una grande quantità di interviste allo stesso Jobs, alla moglie, figli, collaboratori, giornalisti, amici e nemici, come Bill Gates. La storia ripercorre la sua infanzia di bambino adottato, la sua genialità precoce, il college abbandonato e l’uso di droghe, il garage del padre dove con Steve “Woz” Wozniak ha fondato Apple, la cacciata dalla sua stessa azienda, la fondazione di NeXt e il suo tracollo, la nuova avventura imprenditoriale con Pixar, il ritorno alla Apple e la creazione del Mac, l’iPod, l’iPhone, l’iPad.
Il libro si conclude con le parole di Jobs sul suo lascito come imprenditore:

Ho votato la mia passione alla realizzazione di un’azienda capace di durare nel tempo, dove la gente fosse motivata a fabbricare prodotti d’eccellenza. Tutto il resto era secondario. Certo, il profitto era importante, perché era quello a metterci in condizione di creare prodotti eccellenti. Ma la motivazione stava nei prodotti, non nei profitti. […] Alcuni dicono: “Date al cliente quello che vuole”. Non è la mia impostazione. Il nostro lavoro consiste nell’immaginare ciò che il cliente vorrà, prima ancora che lo faccia lui stesso. Se non sbaglio, una volta Henry Ford ha detto: “Se avessi chiesto ai clienti che cosa volevano, mi avrebbero risposto: ‘Un cavallo più veloce!’”. La gente non sa ciò che vuole, finché non glielo fai capire tu. Ecco perché non mi sono mai affidato alle ricerche di mercato. Il nostro compito è leggere le cose prima che vadano in pagina.

La definizione delle carriere ha nel libro di Isaacson forse il suo benchmark, il punto di arrivo per chi vuole emulare le gesta di un imprenditore-eroe perfettamente integrato nella logica del mercato. Le narrazioni come storie degli imprenditori sono uno dei casi più interessanti della costruzione del significato dell’organizzazione.

8. Espressione delle emozioni e dei vissuti affettivi. Secondo Gabriel (2000), la concentrazione sul sense-making tende a perdere di vista la parte più poetica e creativa delle narrazioni nelle organizzazioni. Le storie raccontate da un lato sono spesso il veicolo di forti emozioni e dall’altro generano emozioni. Il modo in cui vengono raccontate è cruciale, secondo Boje (1991) è importante quanto la storia stessa. Il risultato è la trasmissione di significati e norme culturali, la generazione di obbedienza e consenso, la produzione di appartenenza e memoria.

9. Narrazioni di cambiamento, narrazioni per cambiare. Le narrazioni per il cambiamento organizzativo partono dal racconto dello status quo per muoversi poi in una storia nuova, figlia del cambiamento che si intende attuare all’interno dell’impresa. Eero Vaara (2002) nota che quello che viene raccontato di solito è una storia di disordine e una conseguente storia di ordine, o meglio nuovo ordine. Art Kleiner raccoglie e crea racconti orali per il cambiamento organizzativo (2001). Ma il cambiamento all’interno di una organizzazione è una dinamica che spaventa a tutti i livelli, è dimostrato che l’accettazione del cambiamento aumenta se esiste una condivisione della trama (creata dal management) tra i collaboratori, una trama che racconta il futuro, il nuovo ordine che l’organizzazione intende raggiungere, una nuova storia, un mondo possibile.

10. Molteplicità di storie. Partendo dal concetto di polifonia delle storie di Bachtin e dal sense-making retrospettivo di Weick, David Boje dedica la sua ricerca alla pluralità di narrazioni che nelle imprese come nella vita accadono in maniera spontanea e mai completamente afferrabile. Le “grandi narrazioni” non possono esistere perché il significato non è mai completamente appreso: le imprese vivono di ante-narratives o pre-narrazioni. Nel suo paper più citato, A Postmodern Analysis of Disney as “Tamara-Land” (1995), Boje paragona l’azienda Walt Dinsey Company come una pièce teatrale dal nome Tamara: dodici attori in dodici diverse scene continuano a spostarsi di scena in scena e a raccontare ognuno la propria storia, che si modifica in base alla scena e all’interazione con altri attori. “Allo stesso modo l’organizzazione può essere vista come un insieme di frammenti di storie che si intrecciano sulla base di incontri casuali e in cui non è mai possibile accedre contemporaneamente a tutti i punti di vista e dove emerge l’esigenza di attribuire significato agli elementi discordanti, riempiendo gli eventuali vuoti narrativi (Boje, 1995; Cortese, 1999). (…) Il significato degli eventi è legato alla collocazione spaziale, allo sviluppo temporale e alla “trasformazione dei personaggi in discorsi erranti” (Boje, 1995, cit. in ib. p.105). Il ricercatore quindi cerca di scoprire quali sono le voci soffocate dalle narrazioni dominanti, le ante-narratives che veicolano il vero significato in un network di frammenti narrativi. Storie prima delle narrazioni, prima del completo sense-making, mutevoli, incerte, fluide, non ancora reificate.

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