Raccontare storie, usare parole

La voce è il nostro strumento più antico, il più perfetto.

Abbiamo imparato dagli uccelli a parlare. Usiamo le storie per non perdere la memoria. Ci si sedeva e si ascoltava parlare.

Le narrazioni restavano dentro. Diventavano sogni fino all’alba. Se avete mai provato a perdervi in un bosco, magari verso sera quando le foglie filtrano un po’ di luce e voi camminate cercando di non inciampare. Magari in Finlandia quando quel poco di luce ti accorgi che non calerà mai e se ti pieghi scopri mirtilli. Tantissimi mirtilli. Ascoltare una storia raccontata dà una sensazione molto simile.

I racconti orali sono sempre sbagliati, sempre diversi, inventati. Ed è questo che, per uno strano contrappasso, li rende autentici.

Oggi di racconti se ne ascoltano pochi. I racconti sono scritti, pensati, rimasticati mille volte prima di saperli ingoiare.

Obama è un grande racconto scritto. Non sbaglia nulla. E’ un meccanismo perfetto. Dà un colpo al cerchio e uno alla botte per accontentare tutti. Ha le caratteristiche del sogno perché permette di volare, ma a posteriori si scontra con un cielo di piombo che fa volare a terra, camminare di nuovo, se non addirittura stare fermi.

Entro il 2 agosto Obama deve presentare un piano serio per risollevare gli Stati Uniti dal loro grande debito. Se non ce la farà, i titoli di Stato statunitensi potrebbero perdere la loro storica tripla A: il migliore piazzamento, la più alta sicurezza.

E intanto cosa fa? Accoglie il Dalai Lama alla Casa Bianca, mossa che ha del meraviglioso. Perché? Per il gesto. E per le pressioni della Cina ad evitare l’incontro per la situazione tibetana. La Cina, che detiene 3 trilioni di dollari di titoli americani. Che sorte avranno questi titoli? Che storia potranno raccontare?

Barak Obama cammina su un filo sottile a metri e metri di distanza dal suolo. Obama è ubiquo, difficile da capire, eppure un sistema perfetto. Per ora.

Obama rimane una grande promessa. Obama non ha memoria.