Radio Bullets – A Singapore a volte basta condividere una solitudine

Quello con Giacomo è un amore semplice, ma cosa succede quando Gaia smette di farsi domande?

A Singapore a volte basta condividere una solitudine

Quello con Giacomo fu un amore semplice. Parlavano poco ma non serviva dire altro. A Singapore, nella città che non conosci, finalmente tutto è diverso. “Facciamo così”, diceva sempre lui, e a Gaia andava bene, fosse anche solo per condividere una solitudine.

Dopo il primo bacio ci fu un cinema all’aperto, un giro allo zoo, una cena a casa sua e una bottiglia di vino italiano che le aveva spedito suo fratello, e piccole gocce di vino sulla tovaglia, lei le aveva toccate con la punta dell’indice e se l’era messe sul collo ridendo. Lui si aggiustava la cravatta e accendeva una sigaretta goffo come chi l’ha solo visto fare. E una sera, con i coinquilini che se n’erano andati per le vacanze, così vicini che i nasi quasi si toccavano, chiusi piano gli occhi a sentire soltanto il respiro, avevano fatto l’amore per la prima volta.

Al mattino lei lo vide dormire con quel suo broncio di labbra mentre si alzava per preparare il caffè. E così Gaia decise di chiamare suo fratello e raccontargli di come si erano conosciuti, delle smorfie che fa quando guarda un film, dell’impossibilità di cucinare una pasta senza scottarsi quando versa l’acqua bollente, del modo in cui strofina i piedi con i suoi quando dormono, del sentire, forse, amore? E suo fratello, che con lei condivide quel naso all’insù e un certa imprevedibile consapevolezza nei confronti della vita, non diceva niente, ma lei poteva sentire il suo respiro calmo attraverso la cornetta. Andiamo a vivere insieme, aveva detto. Sei sicura? Si. E lui parlava senza fretta dimostrandole ogni volta un affetto antico. (Il padre invece borbottava dalla camera e lei l’aveva sentito bene). 


Facciamo così, disse Giacomo, e così si trasferirono in un piccolo monolocale più alto che largo come una scatola di fiammiferi lunghi lunghi. Il letto stava su e per sdraiarti dovevi scalare pioli di legno e poi strisciare sul materasso. Sotto ci stavano tavolo e due sgabellini a tre gambe, e un piccolo frigo rauco non la smetteva di accendersi e spegnersi. Ogni tanto faceva visita una blatta e lei la scacciava con uno spray rosso e giallo ma subito erano costretti ad uscire perché non si respirava più.

Ad una bancarella del centro commerciale sotterraneo avevano comprato decine di film e li guardavano sdraiati sul letto schiacciati dal soffitto con la testa piegata che sembravano due chiodi battuti storti. E in quelle sere lei lo guardava e seguiva le sue smorfie cercando di collegarle alle sequenze delle storie e aveva capito che quando un personaggio si sentiva braccato, lui stringeva forte le labbra; quando moriva un parente del protagonista, lui sbatteva ripetutamente le palpebre; quando due pattinavano sul ghiaccio, lui inspirava col naso, un po’ avvilito dall’umidità equatoriale che a Singapore non ti molla mai.

E i mesi passavano così a rincorrersi da soli in una città da milioni di vite verticali. 
Un giorno, di ritorno da lezione costeggiando la baia, Gaia lo aveva visto seduto su un muretto con una ragazza al suo fianco. Si avvicinò e lui gliela presentò. Diceva che stavano lavorando ad un progetto cinematografico da portare ad un’azienda della città. Gaia non ne sapeva niente e rimase ad ascoltare la ragazza che raccontava tutta la storia che avevano in mente, e lui era eccitato e alla fine disse trionfante “e poi facciamo così!”, ma così lei non l’aveva mai visto e si sentiva fuori posto ma scacciava il pensiero con tante domande.

A casa non chiese altro, cucinò dim-sum come piacevano a lui e girandosi per dirglielo lo vide al computer e pensò che quello con Giacomo era un amore semplice, e allora dopo cena si arrampicò sul letto e guardò le nuvole pesanti e gonfie. Va a piovere, disse.

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